Il ministro del Beni culturali, Giuliano Urbani: Giuro: nessun bene andrà in saldo Panorama 31/1/2003
Giuliano Urbani, ministro per i Beni culturali, cade dalle nuvole: «Davvero Francesco Nuti ha detto una cosa simile?». Sì, ha annunciato che se non gli saranno dati i soldi per girare un film, il 15 febbraio si suiciderà. Poiché aveva chiesto un finanziamento al suo ministero, in caso di rifiuto, lei potrebbe essere considerato responsabile del suo gesto... «Ma io non c'entro nulla. La sorte di Muti è nelle mani delle due commissioni che scelgono e finanziano i film di qualità, commissioni assolutamente indipendenti». Non potrebbe fare un controllo? Urbani allarga le braccia e scuote il capo. Finita l'intervista, Panorama ha compiuto una verifica in altre stanze del ministero. Risultato: la commissione Cinema ha bocciato all'unanimità il finanziamento al film di Nuti. Una decisione presa prima che il regista minacciasse il suicidio.
Ministro Urbani, tutti i suoi colleghi di governo si lamentano della tirchieria di Giulio Tremonti. E lei? Come sono messe le casse del suo ministero?
Non mi posso lamentare: grazie all'ultima Finanziaria, la dotazione dei Beni culturali è stata aumentata. Si è infatti stabilito che nei prossimi anni il 3 per cento degli investimenti in grandi opere dovrà essere destinato ai beni culturali. È un bel passo avanti: il budget annuo del ministero passerà quest'anno da 2,1 a 3,8 miliardi di euro. Finora, dei 2,1 miliardi a disposizione, potevamo destinare ai restauri solo 500 milioni di euro.
Insomma, per una volta Tremonti non è stato avaro...
Lo ringrazio pubblicamente. Con le nuove possibilità di spesa possiamo avvicinarci agli altri paesi europei, che pur avendo meno beni culturali dell'Italia destinano alla loro conservazione una quota del pil superiore alla nostra. La Spagna impegna lo 0,35 del pil, la Germania lo 0,33, il Portogallo lo 0,25 e la Francia lo 0,18, noi appena lo 0,17. C'è di più. Con le nuove strutture create dal governo, la Patrimonio spa e la Infrastnitture spa, si potranno fare interventi ulteriori, in aggiunta al 3 per cento.
Per esempio?
Pensiamo di valorizzare le grandi aree archeologiche situate in prossimità della rete autostradale, come quella di Luni, vicino a La Spezia. Vogliamo che non ci siano solo il parcheggio e l'autogrill, ma una vera e propria struttura museale all'aperto. Lo stesso faremo poi a Pompei, a Ercolano e in altri siti archeologici di cui stiamo redigendo la mappa. Pensiamo anche di intervenire sui centri storici e su alcuni grandi palazzi demaniali che oggi ospitano uffici pubblici e che di certo non possiamo trasformare in supermercati. Tremonti ha fatto una battuta perfino sulla sede del suo ministero: «Il palazzo di via XX Settembre? Potremmo trasformarlo in un grande museo dell'economia». Condivido.
Dopo tante polemiche, si è capito che il Colosseo e la Fontana dì Trevi non possono essere alienati. Ma per il resto? Avete stabilito quali beni lo Stato potrà vendere e quali no?
Vorrei fugare ogni dubbio una volta per tutte. Quando ha firmato i decreti costitutivi della Patrimonio spa e della Infrastnitture spa, il presidente Carlo Azeglio Ciampi ci ha invitato a mettere in chiaro quali erano i beni alienabili e quali no. Una giusta preoccupazione, che il presidente Silvio Berlusconi ha raccolto facendo proprio il decreto presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, che già nel 2000 aveva fissato i confini di inalienabilità del patrimonio artistico. In più, ora cercheremo di fissare bene la soglia oltre la quale, come ha detto bene il professor Salvatore Settìs, direttore della Scuola normale superiore di Pisa, vendere il patrimonio dello Stato non è un diritto, ma un dovere. Abbiamo talmente tanta roba che sembriamo un paese socialista.
Chi deve decidere questa soglia?
Da più di un mese è al lavoro una commissione che ha il compito di predisporre un vero e proprio Codice dei beni culturali. È costituita da autorevoli giuristi, tra cui Sabino Cassese, ed . è presieduta da Gaetano Trotta, — del Consiglio di Stato. In pratica, questa commissione deve raccogliere le norme che regolano il settore, secondo il principio della codifica piuttosto che del semplice testo unico, individuando anche le norme che si intendono abrogare. Un codice che sarà un punto di riferimento strategico per il riassetto e la codificazione dei beni culturali, quindi anche per le privatizzazioni, che così saranno sottratte il più possibile a criteri di discrezionalità soggettiva.
Ha citato il professor Settìs, autorevole storico dell'archeologia, considerato una nuova icona culturale della sinistra. Come mai l'ha chiamato a fare parte dei suoi consiglieri?
Sono convinto che tra persone che si stimano si può collaborare anche partendo da punti di vista diversi. Per questo, tenendo conto della competenza scientifica e senza curarmi dell'etichetta politica, ho costituito un consiglio scientifico che mi assisterà nella riforma del ministero e nella scelta degli indirizzi strategici in materia di tutela dei beni culturali. Oltre a Settis, ne fanno parte il costituzionalista Giuseppe De Vergottini, l'economista Giacomo Vaciago, il professor Louis Godard, accademico dei Lincei e consigliere di Ciampi, e il professor Antonio Paolucci, soprintendente del polo museale di Firenze.
In Italia che cosa state facendo, in concreto?
Abbiamo 2.742 cantieri aperti, piccoli e grandi, compresi quelli per i restauri del teatro La Fenice di Venezia e la Villa Reale di Monza.
In pochi mesi lei è stato prima in Cina e poi in India, su invito dei rispettivi governi. Che cosa le è stato chiesto?
Sono affascinati dalle nostre capacità di fare buoni restauri e ci invitano a studiare e a eseguire anche quelli dei loro monumenti. Il segreto, oltre che nella bravura dei nostri restauratori, è in un apparecchio tecnologico d'avanguardia: una macchinetta che viene sistemata sul tetto di un'automobile e a velocità molto bassa gira intomo al bene da restaurare, rilevando i vari aspetti da considerare, compresi quelli di rischio, con una precisione assai elevata. La Cina ci ha chiesto questa apparecchiatura per restaurare la Città proibita: la porteremo a Pechino la settimana prossima.
Se i film italiani che fanno cassetta sono come «Natale sul Nilo», immagino che in materia di cooperazione cinematografica le sia rimasto poco da fare all'estero.
Sbaglia. Dovunque ricordano i nostri grandi registi del dopoguerra e vogliono fare accordi di coproduzione con noi. Non solo. Per non farci schiacciare in un angolino dalle major americane, stiamo portando avanti una nuova politica, facendo anche e soprattutto accordi di codistribuzione. Non siamo così presuntuosi da voler fare la guerra alle major, ma salvare un'oasi per le cinematografie nazionali, questo sì. E poiché la codistribuzione richiede condizioni di reciprocità, riuniremo in un'unica struttura le sale a partecipazione pubblica, così da avere un circuito nostro, dove fare vedere il cinema italiano e, secondo gli accordi che stringeremo di volta in volta, il cinema francese, quello tedesco e quello inglese: ho scoperto che anche quest'ultimo, che pure non ha il problema della lingua, soffre non poco il dominio distributivo delle major.
|