Debito pubblico e competitività Antonio Pedone Atti del Convegno, Debito pubblico e competitività, tenutosi a Roma, 26 ottobre 2005
Antonio Pedone: 1. Nel corso dell'ultimo anno, la questione dell'andamento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è tornata prepotentemente alla ribalta e, come sottolinea il Professor Guarino, non può più essere elusa e va affrontata esplicitamente e direttamente, cercando nuove e più adeguate risposte. Prima di esaminare la proposta formulata dal Professor Guarino, conviene ricordare i tre nuovi segnali preoccupanti che si sono manifestati nel 2005 circa le prospettive del debito pubblico italiano. Il primo segnale preoccupante è dato dall'inversione nell'andamento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Dopo un decennio, la lenta ma continua discesa, che si era ottenuta anno dopo anno da oltre il 120% nel 1995 a poco più del 106% lo scorso anno, si è interrotta e quest'anno, per la prima volta da allora, il valore del rapporto dovrebbe risalire intorno al 108%. Come è noto, la variazione dell'ammontare complessivo del debito pubblico dipende non soltanto dal nuovo debito rappresentato dal disavanzo dell'anno (misurato, secondo le regole Eurostat, dall'indebitamento netto della Pubblica Amministrazione), ma anche da altri fattori. Tra questi fattori vanno ricordati i ricavi delle privatizzazioni che vanno a ridurre il debito ma non il disavanzo; il ripiano di debiti pregressi che fa aumentare il debito ma non il disavanzo; le variazioni del tasso di cambio che influenzano il valore dei titoli emessi in valuta ma non il disavanzo. Inoltre, va tenuto presente che il saldo rilevante per la variazione del debito pubblico è costituito dal fabbisogno piuttosto che dall'indebitamento netto, e lo scostamento tra queste due grandezze può essere rilevante e variabile di anno in anno. Limitandoci alla relazione tra disavanzo (indebitamento netto) e stock del debito pubblico, va notato che il valore del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo dipende in misura diretta dall'ammontare dello stock iniziale del debito, dal costo medio del debito misurato dal tasso di interesse sui vari tipi di titoli, e dal valore del saldo primario; e, in misura inversa, dal livello del prodotto interno lordo. Data l'elevatezza dello stock iniziale del debito, la riduzione lenta ma continua del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo verificatosi in Italia tra il 1995 e il 2004, oltre ai fattori sopra ricordati (soprattutto, i proventi da privatizzazioni), è attribuibile in larga misura alla sostanziosa rapida discesa dei tassi di interesse, e soltanto in alcuni anni e in misura modesta e decrescente all'andamento del Pil e all'avanzo primario. Se un contributo fondamentale al contenimento del disavanzo complessivo e alla riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil è venuto dalla discesa dei tassi di interesse, il secondo segnale preoccupante manifestatosi nel 2005 è costituito dal fermarsi di questa discesa e dai ripetuti rialzi del tasso di interesse da parte della Federal Reserve americana, il cui comportamento è presumibile venga seguito (speriamo non nella stessa misura) dalla Banca Centrale Europea. Le conseguenze sul costo medio del debito pubblico italiano e sulla sua struttura per scadenze potranno essere rilevanti, anche se non necessariamente immediate. Esse dipenderanno dall'entità del rialzo dei tassi di interesse e dall'eventuale diversa misura in cui tale rialzo si distribuirà sui tassi a breve e a lungo termine. Se si accentuerà l'appiattimento della curva dei rendimenti, la politica di allungamento della vita media dei titoli del debito pubblico italiano perseguita negli ultimi anni potrà anche proseguire, sia pure ad un costo che sarà comunque maggiore di quello che ci si attendeva in presenza dei tassi storicamente molto bassi goduti negli anni più recenti. In ogni caso, considerato l'ammontare ancora molto elevato delle emissioni lorde che dovranno effettuarsi, la gestione del debito pubblico richiederà molta attenzione, tenendo anche conto della possibilità di un abbassamento del rating da parte delle agenzie internazionali motivato da un accrescimento del costo del debito rispetto a quello finora previsto. Naturalmente, questo maggior costo del debito connesso al rialzo dei tassi di interesse potrebbe (dovrebbe?) essere compensato da un maggior avanzo primario. Ma qui interviene il terzo segnale negativo apparso nel 2005 e costituito praticamente dalla scomparsa dell'avanzo primario. Infatti, dopo aver raggiunto quasi il 7% del Pil nel 1997, il valore dell'avanzo primario, cioè dell'eccedenza delle entrate sulle spese diverse dagli interessi, è andato progressivamente diminuendo nel corso degli ultimi anni, e per quest'anno si prevede che possa collocarsi vicino al mezzo punto percentuale. In tali condizioni, e in presenza del persistere di un tasso di crescita del Pil molto basso, è impensabile che il rapporto tra debito pubblico e Pil possa, senza il ricorso a operazioni finanziarie sotto la linea quali le privatizzazioni, continuare a diminuire e tendere, sia pure gradualmente, verso l'obiettivo del 60% fissato nel Trattato sull'Unione Monetaria Europea. 2. Il manifestarsi nel 2005 dei tre segnali sopra ricordati è preoccupante non soltanto perché indica una DEBITO PUBBLICO E COMPETITIVITA’ Atti del convegno crescente difficoltà a tenere sotto controllo la dinamica del debito pubblico, facendo temere anche per la sua sostenibilità in una prospettiva di medio-lungo periodo, ma anche perché mette in luce una possibile incoerenza tra i parametri di riferimento della politica di bilancio fissati nell'ambito dell'UME; incoerenza che non viene eliminata ma solo appannata e accantonata nella nuova formulazione del Patto di stabilità e crescita approvata nel corso del 2005. Il Patto attualmente in vigore trae la sua origine da numerosi documenti istitutivi: l'art. 104 del Trattato di Maastricht del 1992, il Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato allo stesso Trattato, la Risoluzione del Consiglio Europeo di Amsterdam del giugno 1997, i due Regolamenti del Consiglio del luglio 1997, e gli altri due del giugno 2005. Da questa molteplicità di fonti non del tutto omogenee, e dalle vicende della sua applicazione, il Patto deriva le caratteristiche di una certa ambiguità interpretativa, e di una ampia possibilità di modifiche in sede di riforma. Queste caratteristiche del Patto spiegano anche la diversa accentuazione data a ciascuno dei due parametri quantitativi utilizzati come termini di riferimento per la politica di bilancio nell'ambito dell'Unione Europea: da un lato, il rapporto deficit/Pil e, dall'altro, il rapporto debito pubblico/Pil. Il Trattato di Maastricht stabilisce la coerenza tra questi due parametri secondo i valori fissati nel Protocollo: un rapporto deficit/Pil non superiore al 3% e un rapporto debito/Pil che tende, con un ritmo soddisfacente, al 60%. La coerenza tra i due valori è assicurata da un tasso di crescita nominale del Pil del 5%, in quanto, in corrispondenza di tale valore, il rapporto debito/Pil tende a stabilizzarsi intorno al 60% (che, in situazione di stato stazionario, corrisponde al rapporto deficit/Pil del 3% diviso per il tasso di crescita del Pil del 5%). La coerenza tra i due parametri di finanza pubblica si verifica pertanto in presenza di un tasso annuo di crescita nominale del 5%, che era un valore ritenuto realisticamente perseguibile da parte di quasi tutti gli Stati membri ai tempi della formulazione del Trattato, immaginandosi allora di poter realizzare in media un tasso di crescita nominale del 5%, composto da un tasso di crescita reale intorno al 3% annuo e da un tasso di inflazione contenuto al 2%. Le cose, come è noto, sono andate diversamente, soprattutto per quanto riguarda il tasso di crescita reale del Pil, che è stato generalmente ben al disotto del 3% annuo per la maggior parte degli Stati membri. È così accaduto che, soprattutto dopo il 2000, nei maggiori paesi dell'Unione l'andamento del rapporto debito/Pil o è diminuito quasi esclusivamente per effetto di variazioni delle attività finanziarie nette (soprattutto dei proventi da privatizzazioni di vario tipo e grado) o, in molti casi, ha ripreso ad aumentare. Allo stesso tempo, il Patto di stabilità e crescita non ha impedito il manifestarsi di “disavanzi eccessivi” e l'avvio delle procedure per la loro correzione che sono tuttora in corso per la Francia, la Germania e la Grecia, e nel 2005 sono state avviate anche per Italia e Portogallo. Ciò è avvenuto nonostante che, nel tentativo di evitare tali procedure, si sia cercato di ricorrere a misure di intervento e ad aggiustamenti contabili che hanno dato luogo a ripetute contestazioni e controversie tra gli uffici di Eurostat e della Commissione da un lato, e singoli Stati membri dall'altro. Di fronte al pericolo di una diffusa e persistente disapplicazione del Patto, che avrebbe potuto compromettere la credibilità della stessa Unione Monetaria, nel corso degli ultimi anni sono riprese e si sono moltiplicate le proposte di revisione e modifica del Patto stesso. La riforma delle regole di bilancio introdotta nel giugno scorso tiene conto solo in parte delle proposte avanzate da molti esperti e politici. Con la riforma si modificano sia il meccanismo preventivo sia quello correttivo del Patto. In sintesi, per quanto riguarda il meccanismo preventivo, la riforma modifica sia la definizione dell'obiettivo di bilancio a medio termine, sia il percorso di avvicinamento. Riaffermate le comuni finalità dell'obiettivo (mantenere un margine di sicurezza rispetto al 3%; assicurare progressi verso la sostenibilità delle finanze pubbliche; creare spazio per manovre espansive attraverso gli investimenti pubblici), esso potrà essere fissato a livelli differenziati per paese tenendo conto del valore del rapporto debito/Pil e della crescita potenziale nonché delle passività implicite proprie di ciascuno Stato membro. Anche il percorso di aggiustamento potrà avere ritmi diversi in fase di congiuntura favorevole o sfavorevole, perseguendo in ogni caso una riduzione annua del saldo di bilancio strutturale al netto delle misure una tantum pari in media allo 0,5% del prodotto interno lordo. Per quanto riguarda il meccanismo correttivo del Patto, la riforma introduce esplicitamente alcuni elementi di maggiore flessibilità e discrezionalità nella decisione di sottoporre uno Stato membro alla procedura per i disavanzi eccessivi e nel richiederne una tempestiva correzione. In particolare, viene ampliata la gamma delle circostanze economiche eccezionali, e sono indicati alcuni fattori significativi che possono consentire un superamento, pur sempre limitato e temporaneo, del limite del 3% nel rapporto deficit/Pil. Inoltre, il termine per la correzione dei disavanzi eccessivi può essere esteso da uno a due anni quando ricorrano circostanze speciali. Il processo decisionale risulta perciò più flessibile e basato su una molteplicità di elementi la cui valutazione in molti casi sarà piuttosto complessa. Aumenta anche la discrezionalità del Consiglio nell'avviare la procedura e nel chiederne il rispetto ma, pur entro questo quadro di accresciuta flessibilità e discrezionalità, appare evidente che, rispetto alla situazione precedente, avrà un maggior peso il livello e l'andamento del rapporto debito/Pil. Ridiventa così centrale la questione dei possibili e preferibili modi in cui evitare che il valore di tale rapporto continui a crescere e torni invece a diminuire con un ritmo adeguato. 3. È’ qui che si inserisce la proposta di privatizzazione formulata dal Professor Guarino. Partendo dalla ricognizione dei beni patrimoniali pubblici compiuta da Patrimonio dello Stato Spa, che stima in oltre 1.700 miliardi di euro il controvalore dell'attivo della Pubblica Amministrazione, e considerando che solo una parte dì essi è suscettibile di privatizzazione, si propone che le varie categorie di beni elencate al paragrafo 4 del testo del Prof. Guarino siano conferite, attribuendo loro un valore di 430 miliardi da far confermare da esperti, a una società per azioni di cui lo Stato detenga inizialmente tutte le azioni. La società avrebbe una assoluta libertà di gestione sotto il profilo organizzativo e operativo al fine di valorizzare il patrimonio affidatole e di “massimizzare i risultati”. L'ampio spettro di attività che, secondo le indicazioni del par. 7, la società può svolgere, non dovrebbe distogliere gli amministratori dall'“obiettivo primario dell'alienazione della partecipazione, la più rapida che sia possibile”, cosi come “occorre evitare che altri fini, aggiungendosi ad esso, finiscano con l'offuscarlo”. Il rapido collocamento delle azioni presso il pubblico in sostituzione dei titoli del debito pubblico configura in sostanza un'immensa operazione di debt-equity swap. Poiché si sottolinea ripetutamente che tale conversione deve avvenire “spontaneamente, in conformità alle regole del mercato”, si avverte e ci si augura che i cittadini sottoscrittori “potrebbero considerare che l'acquisto delle azioni, quand'anche non costituisse tra tutti l'investimento più remunerativo”, apporterebbe notevoli vantaggi alla finanza pubblica e all'economia nazionale, “vantaggi che potrebbero essere ritenuti ben più importanti di quelli del capital gain o di un dividendo leggermente superiore”. Ciò sembra trascurare il fatto che oltre il 40% dei titoli del debito pubblico italiano è detenuto da soggetti non residenti per i quali i motivi patriottici potrebbero avere un richiamo minore. Non commenterò in dettaglio questa proposta, anche perché il compito di farlo è stato svolto egregiamente da altri interventi. Mi limito soltanto a segnalare alcune condizioni che, a mio parere, occorre rispettare perché l'inevitabile ricorso a ulteriori privatizzazioni possa portare a un effettivo miglioramento dei conti pubblici e al recupero di un margine di manovra della politica di bilancio diretta a favorire la crescita economica. La prima condizione è che si riconsiderino attentamente le circostanze e le modalità delle privatizzazioni (complete o parziali, dirette o indirette, definitive o con riserva, secondo i vari casi) che consentono di realizzare gli obiettivi ad esse assegnati. Sarebbe utile a tal fine valutare, sulla base della ricca esperienza disponibile anche in Italia, in che misura, con quali limiti e in quali circostanze le privatizzazioni finora effettuate hanno conseguito obiettivi quali: - migliorare la situazione patrimoniale dei conti pubblici, riducendo il debito pubblico netto; - migliorare l'impiego delle risorse, attivando incentivi di efficienza e accrescendo la produttività delle imprese e degli asset variamente privatizzati; - accrescere il benessere dei consumatori, utilizzando a loro favore (almeno in parte) i miglioramenti di efficienza ottenuti; - rendere più spesso ed efficiente il mercato finanziario, avvantaggiando gli investitori finali e non soltanto i beneficiari dell'eventuale underpricing iniziale o i gruppi che hanno assunto il controllo delle attività privatizzate; - ridurre le rendite di posizione politiche dirette (connesse alla proprietà pubblica) e indirette (da regolamentazione, con vantaggi per gruppi di proprietari, dirigenti, lavoratori dipendenti, fornitori, ecc). Sotto molti di questi aspetti il processo di privatizzazione può essere affinato sulla base dell'esperienza, così come possono essere ridotti, prevedendo limitati correttivi ex post, i rischi contrapposti, da un lato della sopravalutazione dell'asset da privatizzare trasferendo un rischio elevato sugli investitori (come sembra poter essere il caso per i compratori dei titoli della Superholding nella proposta Guarino), e dall'altro di sottovalutare i beni patrimoniali ceduti danneggiando l'erario e favorendo i pochi privilegiati primi acquirenti (come sembra essere accaduto in alcuni casi dell'esperienza inglese e nel caso delle cessioni di alcuni immobili in Italia). Anche se migliorato, il processo di ulteriori privatizzazioni non basta da solo a riportarci su un sentiero di risanamento durevole dei conti pubblici. La seconda ancor più importante condizione perché ciò avvenga è che tale processo non distolga l'attenzione dalla necessità di ricostituire un adeguato avanzo primario per il prossimo futuro. Perché ciò possa accadere, in presenza di una stabilizzazione (o eventuale lieve riduzione) della pressione tributaria impostaci dalla crescente concorrenza fiscale internazionale, occorre riprendere il controllo sulla dinamica della spesa pubblica. Anche in questo caso, non abbandonandoci a facili illusioni, come pensare che lo si possa fare semplicemente introducendo limiti temporanei di cassa o fissando tetti alla variazione della spesa pubblica sulla base di dati aggregati e incompleti o di previsioni fantasiose. Purtroppo, i temi della trasparenza, prevedibilità e controllabilità dei conti pubblici non sono oggi all'attenzione delle forze politiche, che sembrano affette dalla stessa corta visione (short-termism) di cui spesso accusano a ragione il mondo degli affari. http://www.associazionenexus.com/attopedone1.pdf
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