Liberiamoci della brutta architettura Rosanna Pirajno Repubblica Palermo, 05-APR-2006
Vederlo implodere con un guizzo, quel mostro edilizio di Punta Perotti, e immaginare la distesa del mare ammiccante dietro la muraglia di polverone, la verità, che gaudio, che soddisfazione, che speranza per le persone che si battono da trent'anni contro l'infamante manufatto, per il paesaggio ingiuriato dall'enorme «saracinesca» di cemento, per l'affermazione del principio di legalità avverso speculazione e affarismo, che magari segnasse l'avvio di un'era nuova per il trattamento di ambiente e territorio. Ma in questo campo non sussistono solidi motivi per l'ottimismo della ragione, nonostante qualche simbolo andato giù dopo anni di contenzioso (si conta un solo precedente, l'altrettanto mostruoso hotel Fuente sulla scogliera amalfitana), e non solo perché abbondano gli esempi contestati e infine graziati da esiti processuali favorevoli, per vizi di forma o per sopravvenuti condoni o sanatorie o varianti edilizie, oppure per oggettiva difficoltà di dare corso a drastiche sentenze di sgombero e demolizione, ma anche o soprattutto perché alla bruttezza, alla volgarità, alla banalità dell'ambiente costruito nel quale ci muoviamo come sorci nel cacio, ci abbiamo fatto il callo, tanto da non distinguerlo neppure. Brutto da dirsi, ma il «pacchiano» ha conquistato il nostro habitat. E pure gli occhi e la mente di quanti, animali metropolitani a tutti gli effetti, trasferiscono nei luoghi di svago e villeggiatura e tempo libero, le affinità elettive con il malo gusto che il contesto ha fatto indelebilmente introiettare. Il paesaggio italico, e peggio ancora quello siculo decantato da viaggiatori un tempo estasiati dei lasciti del passato e della natura, è oramai irrimediabilmente infestato da costruzioni orripilanti, sgraziate per eccesso di tutto, dimensione forme frattaglie materiali altezze vezzi e vizietti, e difetto di quella «arte di costruire lo spazio» che tanto tempo fa identificava il paesaggio dell'architettura e ora soltanto alcune eccellenze. Le quali, appunto perché tali in contesti per lo più deprivati di grazia, non sono in grado di riscattarli. Perché il tipo edilizio più infestante e ricorrente, il mostriciattolo più invasivo e aggressivo, è la «villazza» da abitazione o villeggiatura di massa, la conquista della costruzione fai-da-te abusiva sanata progettata dall'estroso architetto assolta a ogni passaggio burocratico, ma di una Bruttezza talmente desolante da mettere in difficoltà finanche le agenzie immobiliari, quando le promuovono in fila per la vendita nelle paginate delle «occasioni imperdibili». Sarà che «la Bellezza ha abbandonato il Novecento», come afferma il filosofo Zecchi, o che (dice Stendhal) «è una fatalità: la mancanza di fisionomia sembra inerente a tutto ciò che è moderno», ma potrebbe anche essere una questione di punti di vista: a starci dentro, l'ingombrante manufatto si spoglia della sua bruttezza e quel che si vede, il panorama la bellavista il muro di fronte l'orgoglio del possesso, è sufficientemente appagante. Perciò fra il passante che inorridisce alla vista dell'edificio monstrum per forma e design e dimensione e pratiche non proprio specchiate (chi ricordai lunghi contenziosi in cui si sono dibattute le costruzioni del "centro di quartiere Amore di mare" che ha violentato Mondello Valdesi, del "centro polifunzionale" all'Addaura, del palazzone Semilia all'Arenella e di quell'altro gioiello architettonico «dei pizzi» invia Paternostro, e delle villazze di Pizzo Sella, tanto per citare i più noti), e chi da questi edifici gode di un qualche vantaggio, a chi andrà la palma della vittoria quando tutte le carte si mettono in regola? Fra quanti hanno scritto trattati su Bello e Sublime e finanche sul Brutto (Eco, Burke, Rosenkranz, Zecchi...), chi ha osato fare dell'ironia chiosando le immagini di mostri terrificanti raccolti in giro per il Paese, è una coppia di architetti (Gaggero e Luccardini, Gli amici dei mostri, Allemandi 1997) che, pur essendosi ripromessi di fare il sequel, hanno rinunciato forse sopraffatti da tanta abbondanza. E mentre finalmente il «diritto alla felicità» fa capolino anche nel programma elettorale del centrosinistra, il «diritto alla bellezza» è invocato soltanto da artisti e poeti (Benigni, oh caro!), giullari di anime beneficiate dalla sua presenza. Tutti gli altri, abbrutiti dalle pacchianate che abbiamo saputo costruirci attorno, sappiamo solo sbrodolare di fronte alla grande star dell'architettura cui hanno commissionato la Sublime Opera del Riscatto dal Degrado ambientale paesaggistico urbano. Ma la Bellezza (dell'architettura) è materia sfuggente, non si può neppure ottenerla per via legislativa, i tentativi nazionali e regionali di decretare per legge la qualità dell'architettura e del colore da spargerei sopra, sul regolare e l'irregolare, otterranno risultati solo a patto di una svolta radicale nella «geografia dello sguardo». Che dovrà nuovamente imparare a «vedere» e riconoscere e pretendere la grazia e l'armonia e tutto il resto, ovunque si manifestino. Specie nell'ambiente costruito, la cui qualità, è un dato certo, condiziona le nostre vite e le azioni ed è perciò determinante che sia sano e bello e tutto il resto.
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