L'eredità degli avi e il trovarobato Alessandro Barbero La Stampa, 29/11/2005
Come ha scritto Norbert Elias, quel che noi chiamiamo «corte» in un primo tempo non era altro che la casa del re, con tutte le sue masserizie e col numeroso personale di servizio che provvedeva a vestirlo, rasarlo, dargli da mangiare, assisterlo nei suoi piaceri e nei suoi sport, per poi metterlo a letto alla fine della giornata. Le collezioni di armi che oggi fanno bella mostra di sé nelle antiche capitali d'Europa, dalla Torre di Londra all'Armeria Reale di Torino, hanno questa stessa origine, umile e concreta: per vivere, un sovrano medievale non aveva bisogno soltanto di lenzuola e materassi, mobilia e tappezzerie, pentole e vasellame, ma aveva bisogno di armi. La guerra era il suo mestiere e determinava la sua identità, al punto che sui loro sigilli, che costituivano l'espressione più solenne del potere monarchico, i re del medioevo erano sempre rappresentati a cavallo e in armatura, coll'elmo e lo scudo, la spada o la lancia in pugno. L'armeria, perciò, era parte integrante del palazzo. Quando, più o meno all'epoca di Dante, i re europei si scoprirono abbastanza ricchi da organizzare il loro personale domestico in una vera e propria corte, suddivisa in dipartimenti dalle responsabilità diversificate, le armi caddero di solito sotto la responsabilità del Grande Scudiere, che regnava su tutto ciò che aveva a che fare con la caccia e con la guerra: su cani e cavalli, staffieri e maniscalchi, tamburini e trombettieri, e naturalmente sui mastri armaioli che fabbricavano, ingrassavano e lucidavano armi e armature personali del sovrano. Fra Medioevo e Rinascimento l'arte degli armaioli conobbe un tale progresso tecnico che l'armatura divenne un miracolo di elasticità e di leggerezza; non pesava più dell' equipaggiamento completo d'un marine di oggi, e garantiva una protezione così efficace che ancora al tempo dei primi archibugi chiunque potesse permetterselo, in prima fila i re e i nobili, continuava a combattere in armatura. Risalgono a quest'epoca, fra la fine del Quattrocento e l'inizio del Seicento, quasi tutte le armature «medievali» che ancor oggi fanno bella mostra di sé in castelli e musei. Ma la qualità si paga e le armature costavano carissime; quelle dei re, che pagavano meglio di tutti, divennero autentiche opere d'arte, create da armaioli che avevano il tocco d'un orefice. Ancor sempre in quest'epoca i sovrani cominciarono a commissionare armature anche per i principini, capolavori in miniatura che permettevano ai rampolli reali di cominciare a imparare il loro mestiere fin dall'infanzia. Un'armatura firmata da un grande maestro era un regalo degno d'un monarca e i monarchi, ovviamente, presero l'abitudine di scambiarsele in dono; sicché gli equipaggiamenti bellici conservati nei sotterranei del palazzo continuavano a infittirsi. Ma intanto, l'utilità pratica di quegli oggetti meravigliosi cominciava a declinare. La tecnica delle corazze non era l'unica a perfezionarsi, progrediva anche quella degli archibugi; dalla fine del Cinquecento, andare in battaglia coperti dall'armatura divenne sempre meno sensato. Il tramonto di quest'usanza si coglie chiaramente nei ritratti dei re, che nella pittura barocca si fanno ritrarre sempre più spesso con addosso solo una parte dell'armatura, i guanti di ferro, i gambali, la corazza, finché, nel Settecento, la divisa dei nuovi eserciti permanenti non sostituisce definitivamente la ferraglia. Ma nella vita delle corti, intanto, s'era introdotto un sottile mutamento. Ciò che in tempi più semplici era soltanto la vita quotidiana del sovrano, ora diventava sempre più un calcolatissimo spettacolo di propaganda. Banchetti sontuosi e imponenti cavalcate, gallerie degli specchi e saloni di rappresentanza, giardini disegnati da Lenôtre e armerie piene d'armature scintillanti servivano a convincere della maestà e della potenza regia gli ambasciatori stranieri e anche i buoni sudditi, che la domenica erano ammessi a visitarli. All'inizio, del resto, il confine fra la propaganda e la minaccia era piuttosto sfumato: accanto alle armature, sempre lustre ma non più usate, si accumulavano infatti archibugi e cannoni, alabarde e pistole, tutta roba funzionante e pronta ad essere impiegata in caso di agitazioni di piazza. Col tempo, però, la funzione teatrale e museale prese sempre più il sopravvento, finché, dopo la tempesta rivoluzionaria e napoleonica, il confine fra i due aspetti svanì del tutto: nel 1832, quando Carlo Alberto decise di esporre in una manica del Palazzo Reale di Torino la collezione di armi ereditata dagli avi, vi fece confluire anche un'altra raccolta, che aveva comprato in blocco dallo scenografo capo della Scala. Nell'incontro fra l'eredità ferrigna di Emanuele Filiberto e il trovarobato teatrale tramontava un'intera stagione della storia sabauda ed europea, finiva l'epoca delle corti e cominciava quella dei Beni Culturali.
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