Immaginare Ground Zero. Vittorio Gregotti la Repubblica, 21 novembre 2005
Nel 1957 veniva pubblicato il bel libro di Marcello Venturoli dal titolo La Patria di marmo, intorno al concorso del Vittoriano a Roma, un libro largamente ironico sulla grande quantità di stramberie che quel concorso aveva prodotto e sullo stato altamente retorico del simbolo patria in periodo giolittiano secondo artisti e architetti. Tutto questo nella serissima occasione della celebrazione dell'unità d'Italia. II concorso ebbe appunto come esito la montagna di marmo di Giuseppe Sacconi. I concorsi, tra specialisti e su temi anche meno evocativi, hanno talvolta dato luogo, nel XX secolo, a proposte bizzarre ed eccentriche, ma quando nel progetto si sono sovrapposti grandi temi commemorativi e rendite immobiliari certo le cose si sono ancora più complicate. II caso estremo di questa condizione è rappresentato nei nostri anni dalle generose iniziative di concorsi pubblici e privati, per la ricostruzione dello spazio occupato dalle Torri gemelle di New York, dopo l'attacco terroristico dell ' 11 settembre 2001. Giustamente in questo caso le emozioni collettive sono state (e sono ancora) molto intense ma talvolta le aspettative così alte rendono tanto difficili le risposte che esse sembrano affondare in una formalistica esaltazione, con relative motivazioni simboliche, sempre cattive consigliere di una buona soluzione architettonica. Curiosamente nel caso del Ground Zero quasi nessuno dei progetti ha pensato di proporre la ricostruzione di quella che era stata la caratteristica principale delle Torri gemelle e cioè precisamente il fatto di essere le uni-che "gemelle" nel panorama di Manhattan. Ha prevalso invece innanzitutto la sfida in altezza (già perduta perché il guinness dei primati sembra per ora in mano a Taiwan) , banale rappresentazione della potenza, coronata da una grande quantità di contorsioni, di pinnacoli decorativi, di ammucchiamenti di forme tanto bizzarre da far dubitare persino della salute mentale diun'ampiafascia della nostra categoria professionale. Tutti si sono prodigati con impegno generoso, matradito proprio dalla esorbitante preoccupazione narrativa dell'effetto, un processo, come è noto, tipico dell'oggetto Kitsch. Non manca naturalmente qualche progetto seriamente più sobrio (come quello di Richard Meyer per esempio) o più radicalmente poetico, come la proposta elegante e austera di Tadao Andò del vuoto lasciato dalla distruzione trasformato in una grande tomba circolare. Ma è evidente che tali progetti erano destinati a non essere accettati. Le attese del pubblico erano del tutto diverse, fondate su un contrasto insanabile tra il turbinio delle immagini che circola quotidianamente intorno a noi e l'attesa di qualcosa che possa andare oltre ma che sembra non individuabile. Nella bella introduzione del libro dal titolo Immaginare Ground Zero pubblicato dall'editore Rizzoli (pagg. 224, euro 40), Susanne Stephans invita a provare maggiore diffidenza nei confronti dello stato attuale delle fantasie e delle distorsioni elettroniche degli architetti e degli artisti e chiude il suo testo citando Manfredo Tafuri che criticava gli architetti per essere troppo propensi a «vagare incessantemente nel labirinto delle immagini», tanto incessantemente da dimostrarsi incapaci a rispondere in modo civile e attraverso gli strumenti specifici della propria disciplina, all'emozione collettiva.
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