Che scoperta! A Firenze per l'arte è ancora alluvione Ruggero Leonardi Oggi 16-NOV-2005
I soliti grovigli burocratici. La solita mancanza di fondi. Così, per pitture, sculture e affreschi deturpati da acqua e fango in quel fatale 4 novembre 1966, l'emergenza non è finita. Ammassati nei depositi della Soprintendenza, sono ancora in attesa di tornare alla luce finalmente restaurati. E di un'idea per il rilancio.
Firenze, novembre hi oggi ha l'età per ricordare, quella mattina del 4 novembre 1966 non la scorderà mai. Dopo una notte di pioggia che ha il carico di un anno intero l'Arno diventa una massa d'urto che invade case, chiese e biblioteche ingoiando secoli di storia. Il Cristo del Cimabue galleggia sull'acqua melmosa facendosi simbolo di una disperazione collettiva. E Richard Burton si affaccia ai teleschermi per dire, con la sua bella voce di attore shakespeariano, che «il lutto di Firenze, è lutto dell'umanità». Trentanove anni dopo, l'alluvione non è finita. Migliaia le opere salvate ma altro lavoro di recupero tuttora incombe. Qui dove siamo noi, nel Palazzo Serristori (uno dei 7 depositi in cui si procede alla conservazione di 280 dipinti e sculture più centinaia di affreschi distaccati), quasi si rischia di calpestare le tracce vive della tragedia. Certi legni affastellati presso una parete, per esempio. A occhio, paiono buoni solo per il fuoco. Però Maria Matilde Simari, che nel 1966 vide l'Arno salire fin quasi al balcone di casa sua e da un paio d'anni guida una battaglia contro i peggioramenti del tempo per incarico di Bruno Santi, Soprintendente al patrimonio storico e artistico, ci invita a guardare meglio. E infatti su un asse di legno si delinea un braccio antico. È un frammento di predella dei primi anni del 1400. In lista d'attesa anche quello, fra i reduci dall'alluvione. Un'attesa snervante, dovuta alle solite cause: grovigli burocratici, mancanza di fondi... E meno male che c'è chi presta la propria opera gratis. È il caso dei trenta allievi dell'Istituto per l'Arte e il restauro di Palazzo Spinelli che lavorano sotto la guida del presidente onorario Franco Sottani. «È un lavoro di revisione», spiega la dottoressa Simari. «I pezzi vengono spolverati, velinari quando è urgente impedire la caduta del colore e poi ben incartati in attesa del restauro, quando potremo permettercelo. Obiettivo finale del percorso è la riconsegna ai luoghi da cui le opere provengono. Qui per esempio lei vede una pala d'altare di scuola fiorentina del 1600 che ha per soggetto l'elemosina di un santo e un giorno tornerà alla Chiesa dei SS. Apostoli». Lasciamo ora Palazzo Serristori per addentrarci lungo le vie del restauro. Il colore della speranza ci attende. La prima tappa è il laboratorio fiorentino di Luisella Pennucci, dove una grande pala di Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, San Pietro che guarisce un paralitico, promette di tornare fra tre mesi alla Chiesa dei SS. Apostoli grazie a sovvenzioni ministeriali. Poi a Prato, e precisamente dentro un fascinoso intrecciarsi di capannoni, in cui concedere una sosta agli occhi è difficile perché ognuna delle infinite cose lì allineate pretende attenzione. È il Centro Restauri Piacenti, una impresa nata nel 1875 e portata avanti con trasparente amore. C'è una stanza antitarli che tiene a bada anche gli insetti più irriducibili. Ma dopo un iniziale abbandonarsi al panorama composto dal tutto, qualcosa su cui fermare lo sguardo obbligatoriamente si trova. È un Cristo sceso dalla croce. Il ventre è squarciato dalla tragedia del 1966 ma il volto è come lo concepì Pietro Tacca, scultore del Granduca di Toscana dopo il Giambologna. È un volto giovane, disteso, è un Cristo che già guarda oltre le vicende terrene. Ed è una statua straordinaria fatta con materiali inusuali, una tela solidificata e poi colorata. Ma il suo restauro, ci spiega Piacenti, è di quei lavori che vanno avanti «senza che il tempo abbia fretta». Non attenderà a lungo invece (se anime generose come hanno dimostrato di essere i lettori di Oggi in occasione dell'iniziativa Adotta Pompei, interverranno a incoraggiare un restauro il cui costo è valutato 15.000 euro, Iva inclusa) una tela attribuita al Bronzino, alta 246 cm e larga 193,5. Soggetto: Madonna del Rosario con S. Domenico, S. Caterina e fedeli. Un dipinto dove la solennità espressa dalla presenza delle sante figure si stempera nella quotidianità sottolineata dal gesto familiare di una madre alla base del dipinto. L'alluvione è passata anche di qui ma senza esagerare. Tre mesi di lavoro possono bastare perché torni come prima. Spiega Piacenti: «Urge una "fermatura" del colore e una nuova tela che faccia da supporto alla tela originale anche se rimovibile all'occorrenza. Poi una revisione del telaio perché la tela abbia sempre la giusta tensione sì da evitare contrazioni di colore, una pulitura per togliere lo sporco soprastante, qualche intervento di stuccatura e lievi ritocchi pittorici là dove si rivelano mancanze. Rispetto a come siamo abituati a giudicare i dipinti alluvionati, questo si può definire in discrete condizioni». Altro a cui guardare? Che domanda, qui dentro si potrebbe passare un mese ininterrotto e ancora sfuggirebbe qualcosa. E si badi che i dipinti a cui si lascia il cuore non recano di necessità una grande firma. Talvolta sono anonimi ma innamorano quanto quelli d'autore. Si lascia il cuore, per esempio, a un dipinto forse dei primi del '400 in cui una Madonna con Bambino ricorda (anche se non è) la mano di Simone Martini. Oppure un grande dipinto su tavola, una Annunciazione, su cui c'è da lavorare di fino per arrivare a mascherale un taglio profondo ma al nostro ospite già brillano gli occhi pensando a come verrà. E certe statue di legno, che una serie di ingiurie naturali hanno reso sfilacciate e monche, e tuttavia sono imperiose nel loro affermarsi sui banconi fra i capolavori per pretendere reverenziale rispetto. Per finire, una grande pala d'altare del Guercino proveniente dalla Chiesa di S. Martino di Siena che nulla ha a che vedere con l'alluvione ma che lascia turbati per la sua presenza oscura. Spiega Piacenti: «Ha subito gravi danni ai primi del '900 a causa di un restauratore maldestro che ha cotto il dipinto. Tutti i colori hanno virato verso il nero carbone. Ora si sta tentando piano piano di vedere le zone recuperabili». Scrutiamo la tela, ma i nostri occhi profani non vedono nulla che si possa definire recuperabile. Piacenti sorride e non aggiunge altro ma molto bene lascia intendere che, dopo più di un secolo dì combattimenti sostenuti dalla famiglia per la conservazione dell'eterno, la vita per gente come lui non ha gusto se non ci si cimenta talvolta con imprese che paiono disperate. Usciamo dai capannoni un po' più sollevati. L'eterno è in buone mani. C'è ancora da stringere i denti e soprattutto da allargare la borsa e da farsi venire buone idee per dare un futuro a capolavori passati. L'alluvione, alla fine (anche con il concorso finanziario e creativo di voi lettori, di aziende, banche e loro fondazioni, del «popolo dell'arte», laica e sacra) dovrà battere in ritirata davanti alla bellezza finalmente ritrovata. Magari prima del 4 novembre 2006, giorno del quarantesimo anniversario dell'alluvione.
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