PALERMO, Monumenti la mappa della città proibita SERGIO TROISI 06/11/2005 La Repubblica, Palermo
Chi arriva all'aeroporto Falcone-Borsellino trova, ad accoglierlo, un grande cartellone dove fanno bella mostra di sé le silhouette stilizzate di alcuni tra i maggiori monumenti palermitani, da Porta Nuova alla Cattedrale, dal Teatro Massimo alle chiese della Magione e di San Francesco, sino al profilo mosso della Palazzina Cinese. Inclusione, ancorché legittima e dovuta, quasi paradossale per un edificio che da molti anni è off limits (se si escludono le sporadiche aperture in occasione delle giornate promosse dal Fai che infatti hanno visto lunghe code all'ingresso) a causa degli interventi di restauro che facendo i conti le difficoltà di appalti e finanziamenti interessano da tempo l'architettura progettata dal Marvuglia per re Ferdinando in esilio da Napoli. Concepito come casina di caccia con la fastosa decorazione di Giuseppe Velasco, la Palazzina alla Cinese, fondamentale punto di intersezione tra l'esotismo settecentesco e l'eclettismo proprio della successiva stagione dell'Ottocento, è forse il caso più emblematico della geografia di sbarramenti della città. PALERMO, infatti, se molto ha finalmente recuperato nel corso dell'ultimo decennio invertendo la rotta di oblio e cancellazione della propria storia simboleggiata dal teatro Massimo (e l'enumerazione sarebbe davvero lunga, a dimostrazione di un lavoro svolto sottotraccia, spesso nascosto ma costante), fa ancora i conti con i danni devastanti provocati dall'abbandono pluridecennale seguito al dopoguerra. L'elenco non è breve, e non riguarda soltanto gli esempi di architettura cosiddetta minore, dove in realtà si intrecciano fili importanti per comprendere lo stratificarsi della vicenda artistica e della trama urbanistica. In alcuni casi il recupero, sebbene proceda lentamente e con lunghe pause tra una tappa e l'altra, è già iniziato. È il caso ad esempio (oltre che della palazzina di Marvuglia), della chiesa e oratorio dei santi Elena e Costantino in piazza Vittoria, piccolo compendio della decorazione settecentesca con gli affreschi di Filippo Tancredi e Guglielmo Borremans, o dell'oratorio di San Mercurio nel cortile omonimo, probabile prima opera di Giacomo Serpotta a cui diede seguito il figlio Procopio, riaperto due anni fa in occasione di quell'itinerario serpottiano annunciato con grande clamore che poi si è invece rivelato un'occasione a cui è stato dato seguito soltanto parzialmente perle feste comandate: lo conferma il fatto che quel capolavoro del Settecento europeo che èl'oratorio di San Lorenzo, in via dell'Immacolatella, opera della eclatante maturità di Serpotta, apre soltanto in rare, contingentate occasioni. In molti altri casi invece i restauri non sono mai iniziati, e gli edifici versano in condizioni di rischio. Tre esempi su tutti: la chiesa di Sant'Andrea degli Aromatari alla Vucciria, pressoché in rovina, e il cui recupero potrebbe rappresentare un elemento prezioso per riscattare il degrado generale dell'intero quartiere; la chiesa di Santa Maria del Piliere, in piazzetta degli Angelini, attraversata da ampie lesioni e che all'interno conserva (se ancora leggibili, cosa di cui ormai è lecito dubitare) affreschi del maggiore pittore siciliano del Settecento, Vito D'Anna; e infine l'Oratorio dell'Infermeria dei Sacerdoti, in via Matteo Bonello, nella cui navata, addossato alla controfacciata, si sporge spavaldo soffiando nella sua buccina il magnifico putto trombettiere a cavalcioni di un'aquila modellato da Serpotta. Invisibile e inascoltato. Infine, la casistica certamente meno grave di una difficoltà di accesso dovuta non a cause strutturali ma di gestione, e i cui motivi si perdono nei meandri delle concessioni o delle carenze di personale. Come nel caso dell'oratorio di Santa Caterina all’Olivella, integro gioiello settecentesco decorato da Procopio Serpotta sui modelli paterni, gelosamente custodito dall'Ordine dei Cavalieri di Malta; oppure della chiesa di Santa Cristina la Vetere nel cortile dei Pellegrini, esempio singolare di architettura normanna che oggi ricade entro l'area del Seminario; e ancora, della Cappella della Soledad, ancora in piazza Vittoria, sontuosamente riformulata da Paolo Amato per i nobili di una confraternita spagnola, e delle catacombe paleocristiane di Porta d'Ossuna in corso Alberto Amedeo, il cui vestibolo circolare di accesso, realizzato durante il Regno borbonico, rimane costantemente sbarrato. Una mappa necessariamente incompleta e provvisoria, a cui re sta da aggiungere, comunque, quello che forse è il tassello maggiormente ricco di potenziale per tutta l'area circostante: si tratta della zona archeologica di Maredolce, a Brancac-cio, con il castello—sollazzo della Favara edificato da re Ruggero secondo i modelli dell'architettura islamica, fortificato dagli Svevi e oggi assediato ancora da manomissioni, aggiunte e superfetazioni abitative, la cui eliminazione è l'unica strada per ricostituire il parco ricco d'acquee, con esso, ipotizzare una diversa fisionomia per un quartiere difficile.
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