Gallura, i limiti di un modello Sandro Roggio La Nuova Sardegna 23-10-2005
Sarà perché non se n’è mai parlato a fondo che questa mostra promossa dall’Ordine degli architetti del Nord-Sardegna e dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio sulle «belle case» al mare di Gallura non convince per molti aspetti. Le mostre sono occasioni per affrontare di petto i temi, per andare a fondo nelle questioni; non solo per elencare ciò che emerge da faticose ricognizioni negli archivi. Così da un apparato critico troppo sintetico risulta la tesi implicita che, in fondo, la buona architettura non fa male al paesaggio, pure se si tratta di paesaggi nei quali solo l’idea di entrarci senza togliersi le scarpe fa una certa impressione. Sfogliando il catalogo della mostra di Olbia colpisce la mescolanza un po’ casuale che accomuna edifici per servizi urbani anche non incombenti sulle coste — come quello di Aldo Rossi a Olbia — con le case isolate, a schiera, in linea ecc. in lottizzazioni micro e macro. I cui progetti non si capisce come siano stati prescelti (i criteri di selezione forse per mancanza di tempo non sono stati chiariti). Così in cornice molti disegni (alcuni con un iter travagliato presso gli organi di tutela, si dice) con continui rimandi a quei grappoli di case che tempestano quei luoghi splendidi e che hanno prodotto la decisione della politica regionale di fare di tutto per impedire che si continui così. Sarà per l’assenza di dibattito tra gli architetti sui temi delle trasformazioni delle aree costiere — rimasto appunto confinato tra le cose della politica — che la mostra appare eccessivamente indulgente nell’estrapolare da quegli scenari inaccettabili edifici che si ritengono progettati con piº attenzione (o più eccentrici) da qualche architetto che si è fatto un nome con il passare degli anni. E a tratti si ha la sensazione che si giunga a sollecitare, piº che la riflessione sui temi dell’architettura, la curiosità dei tanti che di architettura non si occupano proprio, ma che fanno o farebbero la fila sulle banchine di Porto Cervo per avvistare e fotografare un vip in quel mondo di cartapesta. E’ evidente il rischio di un uso interno, autoreferenziale, magari per qualche gioco di società nelle notti estive a casa della contessa nel rimpianto per il bel tempo che fu. Anche le case firmate contribuiscono insieme con le altre a fare quella poltiglia di insediamenti in quelle marine. Omettere questa circostanza, sorvolare sui guasti numerosi che continuano a provocare lo sdegno dell’opinione pubblica del Paese, non giova al racconto che risulta a tratti troppo generosamente agiografico. Torna in mente la raccomandazione sentita tante volte che togliere dal suo contesto l’architettura è cosa scivolosa, tanto più quando il contesto è così ingombrante, così denso di rimandi a scelte su cui oggi c’è un ripensamento complessivo anche dove meno te lo aspetti («Ci mancò la cultura!», dichiarava contrito il politico in tv, messo di fronte al disastroso impatto di tante belle ville nella Valle dei templi di Agrigento). Risulta così, carente di motivazioni, il giudizio complessivamente positivo anche di quelle soluzioni formali, ampiamente documentate in catalogo, che stanno nel regno della confusione semantica, dov’è per sua natura la gran parte dell’edilizia turistica che da decenni mescola tutto per soddisfare le attese piº diverse degli utenti e degli immobiliaristi, come in ogni parcogiochi. Gli archi finti, le recinzioni rustiche, gli intonaci dati mollemente e tutto il repertorio a seguire, sono in fondo il danno minore. Molte di queste case hanno il loro punto di forza nella suggestione che la natura splendida consente (le rocce inglobate nella casa o le case incassate nella roccia sono i modi che ricorrono). Dove siano le composizioni «di classe» o quelle rispettose del genius loci non è dato di capire (ma dov’è ormai da quelle parti il genius loci, una volta figura retorica della sacralità dei luoghi? Che compaia nottetempo nei pressi del Billionaire?). A questo riguardo sarebbe servito piº di un cenno ad una questione chiara da tempo: che cioè non ci possiamo permettere neppure architetture eccellenti, neanche capolavori quando sono a danno dei paesaggi. Il rischio grave di tante case «organiche» sulle cascate lo aveva segnalato Argan, riconoscendo l’elegante bellezza dell’opera del grande Wright. C’è poi l’aspetto dell’opportunità di una mostra che può generare un po’ di confusione; ed è questo il vero rischio, tanto piº grande quando si invitano le scuole a prenotare le visite guidate (viene detto agli studenti che il villaggio a Santo Stefano, in catalogo, non è un esempio da imitare?) Nel momento in cui c’è un ripensamento di quel modello di sviluppo, l’iniziativa sembra andare controcorrente, anche con qualche ridondanza. Si capisce: a questi insediamenti, che possono contare su molti patrocinatori per accrescere il loro valore nel mercato immobiliare, mancava la legittimazione culturale, la catarsi di una mostra. Ma che si scomodino nientemeno che il sommo Leon Battista Alberti e Wilhelm Worringer (sì, proprio lui, quello di «Astrazione e empatia») per spiegare il senso, la geometria di verande frontemare con barbecue è forse eccessivo. Credo che tutto questo non servirà a convincere nessuno che se le case in costa fossero progettate da buoni architetti non ci sarebbe il danno grave che conosciamo. La politica inaspettatamente è piº avanti. E a proposito di architettura la Regione guarda oltre. Pensa in questi giorni ad un museo-evento — esito di un concorso internazionale di progettazione — con l’idea di provocare una reazione a catena prodotta dall’accostamento delle figure dell’identità, incardinate nelle suggestioni del mondo nuragico, con tutto il sommovimento artistico che si intravede nell’isola. A provocare il corto circuito immaginato — di cui ha scritto Giuliana Altea sull’ultimo numero di «Domus» — gli architetti sardi potrebbero pensare di contribuire. Un’edilizia che mescola tutto per soddisfare le attese più diverse. Il dibattito in corso, e non solo in Sardegna, va in altre direzioni. |