Il banchiere che gestisce i musei: "Facciamo della cultura il grande detonatore di un ciclo di sviluppo" MARCO PANARA La Repubblica, Affari e Finanza, Lunedì 17 ottobre 2005
Gianfranco Imperatori è un banchiere con il pallino dello sviluppo. Per questa ragione si è occupato di finanza innovativa per le imprese, di project financing, di rating e, negli ultimi anni, di cultura. Non solo da amatore. Nel 1987 insieme ad Antonio Maccanico e ad un altro gruppo di economisti fondò Civita, una associazione che prese il nome da Civita di Bagnoregio, un borgo bellissimo e abbandonato nell’alto Lazio che l’associazione si mise in testa di riportare alla vita. Oggi Civita con la sua partecipata Zètema ha più di 500 dipendenti, gestisce servizi in oltre sessanta musei (tra i quali il Cenacolo Vinciano a Milano, i Musei Capitolini a Roma, il Museo Capodimonte a Napoli, tutti i Musei di Venezia) organizza mostre (tra le ultime Canaletto e Caravaggio, la prossima su Gentile da Fabriano a Fabriano), e si è fatta promotrice dei distretti turistici e culturali. Cosa c’entra la cultura con l’economia? «Può esserne un motore, e un motore potente per chi, come l’Italia, ha un patrimonio culturale immenso». Facciamo la Disneyland della cultura? «No, facciamo della cultura una leva per lo sviluppo». Ambizioso. «Ci dobbiamo rendere conto che il mondo è cambiato. La globalizzazione sta dividendo il pianeta tra coloro che possono portare avanti un modello di crescita di tipo quantitativo, e coloro che invece devono adottare un modello di sviluppo qualitativo». L’Italia da quale parte sta? «Inequivocabilmente nella seconda. L’Italia e l’Europa: Lisbona ha sancito con chiarezza che la nostra sfida è il passaggio da una economia prevalentemente materiale ad una prevalentemente immateriale». Per scendere dalla filosofia alla realtà, cosa vuol dire ‘un modello di sviluppo qualitativo’? «Vuol dire puntare non solo sulla produzione di beni materiali, gli oggetti fisici, ma anche e sempre di più su quelli immateriali, che sono beni anch’essi e spesso si possono configurare come prodotti». Per esempio? «La salute, è un bene dietro il quale c’è una attività economica qualitativa, tanta occupazione, tanto sapere, tante tecnologie e tanta ricerca. La sicurezza è un altro settore, oggi più che mai importante, dietro il quale ci sono attività economiche, occupazione, ricerca, imprese. L’ambiente è un bene che può essere organizzato e valorizzato. La cultura è un bene che grazie alle capacità organizzative, tecnologiche e di marketing può essere un nuovo made in Italy. La Cultura e i Beni Culturali sono oggi infatti un valore per sviluppare una filiera produttiva che ne garantisce la tutela e ne favorisce una migliore fruizione creando imprese ed occupazione nei settori del restauro, della multumedialità, dell’informatica, dell’editoria e della accoglienza». E dell’industria cosa ne facciamo? «Non credo e non mi auguro che scompaia. Come tanti altri sono convinto che aumenterà la produttività, ridurrà il suo peso sul prodotto lordo e si internazionalizzerà, nel senso che porterà altrove buona parte della produzione di beni fisici e manterrà in Italia direzione, ricerca, design e marketing strategico». Torniamo alla cultura, in che modo possiamo metterla in moto? «La cultura fino a qualche tempo fa era una questione individuale, ciascuno se la costruiva e se la arricchiva per conto proprio. Ora la domanda individuale è diventata una domanda collettiva, e stiamo parlando di una domanda enorme, nel mondo, di cultura in generale e di cultura italiana in particolare. Noi dobbiamo chiederci come possiamo rispondere a questa domanda, e darci delle risposte in fretta, per almeno due ragioni: la prima è che l’Italia è ferma, e se la sua capacità manifatturiera deve rimanere importante e anzi essere rilanciata con una buona iniezione di innovazione, non possiamo però pensare che in quell’area si possa creare nuovo lavoro; la seconda è che noi abbiamo poche risorse in generale con l’unica eccezione della cultura, di cui l’Italia è il deposito più ricco del mondo. La domanda c’è, il patrimonio lo abbiamo, dobbiamo solo decidere di farne il detonatore di un nuovo ciclo di sviluppo». Da dove partiamo? «Io parto dall’esperienza di Civita, che da tempo è uno dei soggetti d’impresa che si è incamminato su questa strada. Abbiamo un numero importante di soci privati (150) e ci siamo mossi mettendoci al servizio delle strutture culturali esistenti, altre ne abbiamo avviate noi, come per esempio i distretti culturali, e ad altre ancora stiamo lavorando. Se in Italia il turismo in generale cala mentre cresce quello verso le città d’arte, è un po’ anche perché ci sono musei aperti, mostre, marketing, servizi aggiuntivi, che Civita offre». Quali sono questi servizi aggiuntivi? «Dal merchandising ai bookshop alle caffetterie, alle guide con supporto tecnologico, alla sicurezza, alla biglietteria elettronica. Ma è solo l’inizio, la nostra idea è di passare dal ‘museo tempio’ al ‘museo officina’, utilizzando la tecnologia per aumentare le informazioni e rendere più articolata e ricca l’offerta. Tutto ciò fa nascere nuove imprese, dà spazio a nuove professionalità, crea nuovi prodotti vendibili in loco e a distanza. Guardi a cosa sta facendo l’Ibm». Cosa sta facendo? «Ha collaborato con l’Ermitage alla digitalizzazione di oltre 1500 opere e alla creazione di motori di ricerca utilizzati da oltre 200 mila persone al giorno. Ha sviluppato il sito Eternal Egypt che ospita tutti i più importanti siti archeologici, manufatti, personaggi e le storie collegate. Al Moma di New York sta lavorando alla digitalizzazione di tutte le opere. In Italia ha portato avanti il progetto Neapolis con l’archiviazione di tutto il patrimonio di Pompei, e via elencando». Finirà come con il calcio, tutti davanti al video e più nessuno allo stadio. «Le esperienze fatte ci dicono il contrario. I musei che si sono attrezzati con attività multitask e con tecnologie digitali, come il Louvre e il British Museum hanno sei milioni di visitatori l’anno. I Musei Vaticani e gli Uffizi, che sono tra i più importanti Musei italiani, accolgono tre milioni di visitatori il primo e un milione e mezzo il secondo». Ma l’economia come se ne giova? «Perché si mettono in moto tante cose in tanti settori. Price Waterhouse in un suo studio parla di tre milioni di occupati in più se si valorizzano le attività culturali e di circa 800 nuove imprese in pochi anni. Io mi limito a dire che puntando sulla cultura si hanno ricadute nelle imprese tecnologiche, nelle attività di restauro e conservazione, dove l’Italia ha le migliori competenze, nell’artigianato di qualità, nelle attività multimediali ed editoriali. E poi ci sono gli alberghi». Punto delicato, l’ospitalità italiana non brilla. «L’ospitalità italiana pur qualitativamente di buon livello non è sufficiente ad accogliere il turismo diffuso proveniente dalla Cina, dall’India e dai Paesi dell’Est. A questo riguardo Civita e Ance hanno fatto uno studio dal quale emerge che entro i prossimi dieci anni ci sarà bisogno di almeno 800 nuovi alberghi da 5060 stanze ciascuno, e ora stiamo lavorando a un progetto abbastanza originale, che ha convinto anche i ministeri delle Infrastrutture e dei Beni Culturali». Di che si tratta? «Di definire un format con determinati standard di servizio e di qualità e di costituire una società consortile che vegli su questi standard, fornisca una serie di servizi e faccia il marketing per tutti gli 800 alberghi, che potrebbero essere collegati in una forma di franchising. L’ideale sarebbe utilizzare edifici già esistenti, e gli enti locali ne hanno molti, anche già ristrutturati, che non sanno come utilizzare. Ciascun albergo potrebbe essere gestito da una piccola impresa, anche familiare, ed essere caratterizzato secondo le specificità non solo enogastronomiche ma anche culturali del posto. Ciascun albergo potrebbe diventare esso stesso un piccolo centro di organizzazione culturale, con iniziative per presentare, spiegare e valorizzare quello che ha intorno». Basta questo a rilanciare l’Italia? «Queste sono iniziative, piccole e meno piccole, che però vanno nella direzione giusta. Noi stiamo lavorando a un progetto abbastanza originale, che ha convinto anche i ministeri delle Infrastrutture e dei Beni Culturali». Di che si tratta? «Di definire un format con determinati standard di servizio e di qualità e di costituire una società consortile che vegli su questi standard, fornisca una serie di servizi e faccia il marketing per tutti gli 800 alberghi, che potrebbero essere collegati in una forma di franchising. L’ideale sarebbe utilizzare edifici già esistenti, e gli enti locali ne hanno molti, anche già ristrutturati, che non sanno come utilizzare. Ciascun albergo potrebbe essere gestito da una piccola impresa, anche familiare, ed essere caratterizzato secondo le specificità non solo eno<\->gastronomiche ma anche culturali del posto. Ciascun albergo potrebbe diventare esso stesso un piccolo centro di organizzazione culturale, con iniziative per presentare, spiegare e valorizzare quello che ha intorno». Basta questo a rilanciare l’Italia? «Queste sono iniziative, piccole e meno piccole, che però vanno nella direzione giusta. Noi stiamo lavorando anche ai distretti culturali, per creare sistemi integrati nei quali l’offerta turistica e culturale possa venire integrata e promossa. E poi ci sono le città. L’Italia non lo sa, ma se ha una cosa straordinaria da offrire nell’epoca dell’economia immateriale questa sono le città. La manifattura va fuori dalle città e le trasforma in dormitori, l’economia immateriale invece va nel centro delle città, lo rianima. Noi dobbiamo ripensare all’uso che facciamo delle città, che devono diventare il contenitore delle nuove attività, da quelle tecnologiche al design a quelle culturali e turistiche, per le quali le città d’arte, e noi ne abbiamo tante, sono una leva fortissima». Tutti guide e camerieri? «No, tanti turisti italiani e soprattutto internazionali, tanti creativi, tanti talenti attratti dalla fertilizzazione e dalla suscettività culturale delle nostre città e dal nostro stile di vita. L’accoglienza e le tecnologie debbono trasformare questa grande domanda in una offerta capace di aumentare valore e competitività».
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