Registi e attori, lo sciopero dei miliardari. L’arte dei compagni Alessandro Gnocchi Libero, 12-OTT-2005
Le star dello spettacolo contro i tagli a un settore che non vuole accettare le leggi di mercato
Le associazioni e i sindacati dello spettacolo protestano contro il taglio dei fondi previsto dalla finanziaria. Lo slogan della giornata nazionale di sciopero (14 ottobre) è apocalittico: «Chiudere un giorno per non chiudere sempre». Registi e attori scendono in campo per esprimere solidarietà ai lavoratori. E che fanno? Rinunciano ai cachet non esattamente proletari che sono abituati a incassare? Giammai. Molto meglio indignarsi. Non costa nulla e si fa un figurone. Roberto Benigni è indignato: «La cultura, in Italia, conta sempre meno. Tutto lo spettacolo e il cinema in particolare non interessano più, visto che non si da loro alcun valore». Mariangela Melato è indignata: «Lo spettacolo italiano è stato condannato a morte». Dario Fo è indignato e ne approfitta per manifestare il suo disgusto verso la plebe: «di un popolo ottuso non ci si può fidare e prima o poi la paghi. La cultura è intelligenza e un popolo stupido distrugge la patria». Bernardo Bertolucci è indignato e denuncia oscure trame: «Temo che dietro ci sia un disegno preciso: impedire al cinema italiano di parlare del nostro Paese e soprattutto di parlarne fuori, al resto dell'Europa, al resto del mondo». Foschi scenari occupano le pagine dei giornali di sinistra. La Mostra del cinema di Venezia 2006 non si farà; i film in corso d'opera non saranno portati a termine; prosa e lirica spariranno; i musei non potranno pagare lo stipendio ai dipendenti. I sindacati rincarano la dose: migliaia di posti di lavoro sono a rischio. Le cose in realtà non stanno così perché i giochi non sono ancora fatti. L'iter della Finanziaria deve ancora essere completato e i tagli saranno quasi certamente ridimensionati. Il punto è un altro. I finanziamenti allo spettacolo sono una anomalia da correggere. I film devono stare sul mercato, come ogni altro prodotto (artistico e non). Non ci riescono e quindi il cinema italiano rischia di scomparire? Amen, ce ne faremo una ragione. Vuoi dire che vale poco. Non è grave: si producono film bellissimi in tutto il mondo; guarderemo quelli indiani, giapponesi e cinesi. C'è chi sostiene che il finanziamento statale sia necessario per competere ad armi pari con gli americani. Balle. Per competere ci vogliono soldi ma soprattutto idee. Cinquant'anni fa il divario tra le nostre case di produzione e quelle americane era superiore a quello attuale. Eppure Fellini e De Sica mietevano successi in patria e in America. Come siano utilizzati i soldi dei contribuenti è sotto gli occhi di tutti. Tra i film realizzati con la ricca elemosina di Stato, ricordiamo anche un numero consistente di boiate pazzesche, come "Cattive ragazze" (Marina Ripa di Meana) o "Mutande pazze" (Roberto d'Agostino). Gli ex ministri Veltroni e Melandri, oggi scandalizzati dai tagli ordinati da Tremonti, hanno sulla coscienza capolavori come "Al ristorante della Sora Lella" (costato 2 miliardi di lire e mai uscito nelle sale) e "Zora la vampira" (obolo di 3 miliardi, incasso di 300 milioni). E potremmo andare avanti per una pagina o due, flop dopo flop. Bene. Quale produttore americano sarebbe così fesso da investire 20 centesimi in roba simile? Lo Stato, purtroppo, non ragiona come un produttore americano e ogni anno butta via milioni di euro. Stesso discorso vale per musei e teatri. Se un industriale lancia una linea di prodotti che non piace, ha due possibilità. La prima è drastica: chiude. La seconda è realistica: cambia il prodotto. Teatri e musei non accettano questa logica. Non funzionano, hanno costi eccessivi e un bacino di clienti limitato. Perché pretendono che lo Stato si faccia carico delle spese? Sarebbe forse più utile cercare forme più strette di collaborazione col privato e progettare eventi meno faraonici ma più innovativi. Vi sembra normale che la Mostra del Cinema di Venezia riceva circa 5 milioni di euro dallo Stato? Vi pare possibile che tutte le fondazioni di lirica siano in passivo, nonostante un finanziamento complessivo di 250 milioni di euro? In Italia è diffusa l'opinione che denaro e arte siano incompatibili. Il mercato, infatti, è cattivo e premia sempre i peggiori. (Traduzione: io sono un genio ma il popolo bue non mi capisce). Al diavolo quindi le opere "commerciali" e i "venduti" che le realizzano. Chi sostiene che l'artista non si debba sporcare le mani coi soldi o vive in un altro mondo o è un ipocrita. La questione non è soltanto economica. L'indipendenza si conquista anche facendo quadrare i conti. Molti, invece, desiderano con ardore essere schiavi delle sovvenzioni statali.
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