Ma l'architettura non è marketing... Roberto Marraffa Secolo d'Italia, 06/10/2005
PER le arcistar dell'architettura internazionale l'Italia è terra di conquista. Le maggiori commesse di complessi e infrastrutture urbane del nostro Paese sono appannaggio dei vari Richard Meier, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Santiago Calatrava, Norman Poster, Cesar Pelli, I. M. Pei... A Milano, Roma, Firenze, Venezia sono loro ad essere considerati e selezionati dalle amministrazioni pubbliche. Che sta succedendo? Un gruppo di prestigiose, anche se stagionate, firme italiane, in cui figurano Vittorio Gregotti, Guido Canella, Antonio Monestiroli, Franco Purini, Aimaro Isola, Ettore Sottsass, Cesare Stevan e Paolo Portoghesi (sì, proprio lui, quello della rottura con la tradizione dei Terragni, Libera e Ridolfi) è addirittura sceso in campo in difesa dell'«irrinunciabile risorsa culturale italiana, che non può essere ulteriormente vanificata e ignorata» indirizzando ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato un «appello per lo sviluppo in Italia della nuova architettura» in cui la situazione del settore viene definita "drammatica". Provincialismo o legittima protesta? Vediamo se riusciamo a trarre qualche verità dal dibattito che ne è seguito. Cappello individua come una delle cause del ricorso agli stranieri il fatto che questi hanno potuto esplicarsi nel proprio Paese, potendo realizzare, a differenza degli italiani, «grandi opere d'interesse sociale» per mettersi in luce. Al contrario, l'Italia ha in questo campo accumulato notevoli ritardi, privando i nostri architetti di "occasioni di lavoro" e di insostituibili esperienze di confronto. I maggiori responsabili di tale situazione sono individuati nei sovrintendenti e nel loro indiscriminato potere di veto, «un potere totalmente autonomo, che ha privato l'Italia di numerose opere significative rimaste sulla carta» (ma che, con l'applicazione della legge Bottai del '39, ha contribuito e non poco alla preservazione dei nostri centri storici). È che questo potere di veto, i sovrintendenti, probabilmente vittime del clima ideologico-culturale che è imperversato in Italia per cinquant'anni, lo hanno esercitato in maniera indiscriminata. Esempio clamoroso di tale cecità culturale è stato il divieto opposto anni fa ad un bellissimo e ambientatissimo progetto per Venezia del grande Frank Lloyd Wright Il diritto delle generazioni. L'instaurazione di una situazione di museificazione della città, ha impedito alle nuove generazioni di svolgere il ruolo storico di connotare la città stessa con gli esiti della naturale evoluzione antropologico-culturale della società urbana. Ha tolto loro il sacrosanto diritto di dare un proprio segno alla città, sicché si può tranquillamente affermare che i sovrintendenti hanno agito antistoricamente, fuori dalla realtà. Claudio De Albertis, presidente dell’Ance, la nota associazione dei costruttori edili, è intervenuto sul n. 259 di "Edilizia e Territorio", nel dibattito sull'opportunità o meno dell'appello, con una significativa presa di posizione in favore della tesi secondo la quale ai progettisti italiani, ingegneri e architetti, «sono mancate per lungo tempo occasioni per sperimentare un'estetica contemporanea e, coerentemente, una competenza tecnica aggiornata». Per decenni Amministrazioni pubbliche e sovrintendenze hanno ignorato la necessità per i progettisti di sperimentare nuove tipologie edilizie coerenti con il progressivo cambiamento dei modelli di vita degli italiani, dando priorità alla conservazione piuttosto che alla sperimentazione. Questa scelta ideologica ha tutt'altro che pagato, comportando la rinuncia alla realizzazione di quelle opere di architettura che sono appunto il portato delle nuove generazioni, incidendo sulla città con il segno di nuovi contesti socio-culturali. I nostri progettisti non potevano certo maturare esperienze che non fossero soprattutto di recupero, a fronte di problematiche proprie del patrimonio edilizio esistente. Si è così andati avanti per 40 anni senza che si potesse riflettere e dibattere su nuove espressioni dell'architettura, senza che si potesse contribuire in qualche modo alla crescita del set-tore.delle costruzioni, senza che il sistema produttivo potesse strutturarsi su tecniche, professionalità e strumenti diverse da quelle del passato. «Parallelamente al disagio dei. progettisti italiani - scrive De Albertis -va quindi rilevato oggi anche un problema di aggiornamento dell'intero settore... Nelle città si è incentivata la ristrutturazione di edifici obsoleti invece di favorire la loro sostituzione con manufatti più adatti alla domanda». Il riferimento obbligato alla «coerenza con la città storica» previsto da certi interventi legislativi risulta dunque inutile e dannoso se non applicato alle parti autenticamente sto-riche della città, così come dannoso è il sistema di favorire la procedura autorizzativa, nei casi di impatto paesistico, quando si «mantengano i caratteri architettonici, lo stile, i materiali del tessuto urbano in cui ci si inserisce». Mai avremmo pensato che si sarebbe arrivati all'agevolazione del falso in architettura. Architettura come immagine. Con la Cdl al governo e i sindaci eletti direttamente dai cittadini, la situazione si è improvvisamente ribaltata, non trovando peraltro amministratori culturalmente adeguati. Spesso gli stessi sindaci e i loro assessori sembrano, aggiunge De Albertis, «più interessati all'audience, che le architetture spettacolari e gli architetti dello star-system garantiscono, piuttosto che alla reale fattibilità e fruibilità del progetto». Ribaltata la situazione lo è proprio in riferimento alla gelosa conservazione operata per decenni: con la più recente campagna di opere pubbliche e gli interventi di grandi dimensioni legati ai concorsi internazionali di progettazione, irrompono nel nostro paese un'architettura spettacolare e schiere di architetti internazionali che ottengono mano libera nel proporre una mutazione radicale delle nostre città. «Sorgono così nelle nostre metropoli - continua il presidente dell'Ance - costruzioni di vetro e titanio con costi di manutenzione altissimi, bilanci energetici squilibrati, vivibilità dubbia, compatibili soltanto con poche funzioni pubbliche... un mercato nei fatti marginale che ha però condizionato le aspettative estetiche di committenti e fruitori... mentre il resto del mondo deve fare i conti con le giuste istanze della ricerca sul contenimento energetico e con il potere di acquisto (degli) utenti...». Sotto accusa la struttura dei concorsi. Nell'attualità, e visto ciò che sta accadendo, le tesi del presidente dell'Ance pongono in definitiva in secondo piano la questione delle sovrintendenze. Anche Gregotti prende le distanze da tale questione: deve invece essere messo sotto accusa la struttura dei concorsi e il basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche, per le quali premiare uno straniero significa condividere l'idea, peraltro assurda, che la qualità dell'architettura sia un problema di marketing e che quindi convenga premiare architetti che sono internazionalmente alla moda. In questo ambito divengono sempre più chiare le responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa e della loro scelta di sostituire con una spot-notizia un pertinente giudizio critico. Come abbiamo già rilevato in altre occasioni, la critica architettonica è pressoché assente dalle pagine culturali dei nostri quotidiani. A fronte del vasto schieramento in favore dell'appello si è anche levata qualche voce discorde, come quella di Massimiliano Fuksas che, lavorando all'estero, sente di poter affermare che «è ora che anche l'architettura entri nell'età della globalizzazione», ma la questione non può essere posta in questi termini, perché pensiamo anche noi, con Vittorio Gregotti, che «l'internazionalismo critico, che è uno dei fondamenti del progetto moderno, è qualcosa di assai diverso dall'ideologia del globalismo dei mercati e delle tecniche, delle inutili bizzarrie e della riduzione dell'architettura ad immagine». Perplessi sul tipo di lettura, che denuncia altri aspetti della questione, lascia la dichiarazione di Stefano Zecchi, assessore alla Cultura di Milano: «La verità è che la pietra dello scandalo è Milano, che ha saputo rompere con la vecchia tradizione architettonica da salotto chic della sinistra e aprire alle grandi firme straniere. Nel rispetto della qualità, della preesistenza storica, ma non nella difesa di lobby artistico-architettoniche». Questa cosa sarà forse vera a Milano, altrove solo in parte.
Il punto cruciale. Pio Baldi, responsabile della direzione Architettura del Ministero dei Beni Culturali, cui i firmatari dell'appello vorrebbero assegnare i poteri da togliere ai sovrintendenti, commenta: «Siamo al provincialismo alla rovescia. L'Italia ha un tessuto storico tale che ha bisogno di interventi alla Scarpa o alla Ridolfi; spesso questi architetti internazionali non hanno la sensibilità adatta ad operare da noi». È questo il punto. Lo «scatolone» costruito da Richard Meier per la sistemazione dell'Ara Pacis è stato definito da Italia Nostra «una mostruosità», una ferita nel centro di Roma Devo dire che Meier, come architetto moderno - l'architetto della chiesa di Tor Tre Teste per essere più precisi - a me non dispiace; ma è chiaro che con l'Ara Pacis e il contesto del vecchio porto di Ripetta non ci ha capito granché. Non sono un fautore di Leon Kriér, ma bisogna ragionevolmente ammettere che, nel contesto storico in cui è collocata la nuova teca, quella specie di stazione di servizio realizzata dall'architetto statunitense è quanto di peggio si poteva prevedere sia sul piano architettonico che su quello urbanistico. Il nostro Paolo Marconi avrebbe fatto sicuramente meglio.
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