Quel paesaggio specchio della Patria Raffaele Liucci Il Sole 24 ore 05-SET-2005
C’è qualcosa d'immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo». Rispetto a quello di Goethe (1786-88), il Viaggio in Italia di Guido Ceronetti (1981-83) registra un grande assente: il paesaggio. Il poeta tedesco lo aveva colto nella sua imprevedibile varietà, unifi-cata dall'accecante splendore: «Ogni volta che la penna vuoi descrivere, mi vengono sempre sott'occhio immagini della fertilità del suolo, del mare sconfinato, delle isole vaporanti nell'azzurro, della montagna fumigante, e mi mancano i mezzi per esprimere tutto questo». Due secoli più tardi, il sulfureo Ceronetti riscontra con amarezza un paese «terribilmente uniforme e noioso», sfigurato da una spessa crosta edilizia. Il viaggiatore non turista resta senza bussola: «II brutto cancella l'intelligibilità del mondo». Sempre più difficile, in effetti, quando poggiamo i nostri occhi su qualche prospettiva, coglierne le sedimentazioni storiche. Pensiamo alla fascinosa campagna veneta. Fissata in tanti celebri dipinti, evocata dalla scintillante prosa di Giovanni Comisso, scandagliata con rigore scientifico da Emilio Sereni e Marino Berengo nei loro studi di storia agraria, oggi è quasi scomparsa. Al suo posto, un'informe marmellata cementizia fatta di capannoni, villette a schiera e mastodontici centri commerciali. A inframmezzarla, risorgive maleodoran-ti, cave abusive e un dedalo di bretelle asfaltate. Nelle aspre parole di Andrea Zanzotto, risuona il canto del cigno di una terra irriconoscibile: «Ti abbiamo intossicata, sconquassata, rosicchiata, castrata, non per il bene nostro che da tuo non duo se Dararsi ma ner l'avidità di pochi gufi dal gozzo pieno». «Il paesaggio — spiegava nel 1920 Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione, illustrando il suo disegno di legge "per la tutela delle bellezze naturali" — è la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Preservarlo, perciò, significava difendere la propria patria, ossia «quel che costituisce la fisionomia, la singolarità, per cui una nazione si differenzia dall'altra, nell'aspetto delle sue città, nelle sue curiosità geologiche, negli usi, nelle tradizioni, nei ricordi storici, letterari, leggendari, in tutto ciò, insomma, che plasma l'anima nazionale». Proteggere il paesaggio non implicava alcuna offesa al "diritto di proprietà" o ali"1 attività industriale". Anzi, concludeva Croce, occorreva «costituire un sistema di accordi fra i privati e l'amministrazione delle Belle Arti, e fra questa e le altre amministrazioni pubbliche, affinché siano composti con spirito di conciliazione i vari interessi contrastanti». Parole al vento. Nel volonteroso appello del filosofo napoletano, così come nell'invettiva di Ceronetti e nell'elegia di Zanzotto, si rispecchia una delle più profonde fratture dell'Italia novecentesca. Da un lato, un piccolo drappello di intellettuali, scrittori, tecnici e, più raramente, uomini politici, mossi da ragioni conservative. Molti nomi, talvolta dissonanti, eppure concordi nel difendere il paesaggio — sommo bene culturale, carattere originale di un'identità ancora precaria e malcerta — dagli «energumeni del cemento», irrispettosi di ogni estetica e logica (così li aveva apostrofati il «Mondo» di Pannunzio). Dall'altro lato, il senso comune italico «ben felice di venire ad abitare in mostruose caverne di cemento» e disponibile ad aprire ogni giorno un nuovo «museo di orrori architettonici», come scriverà sarcastico Montanelli. Una lotta di formichine contro pachidermi, che otterrà qualche vittoria sporadica, ma non sarà in grado di evitare una massiccia e tracimante alluvione di calcestruzzo, ben al di là delle giuste necessità residenziali. Valga per tutti un dato eloquente: i nove decimi dell'edificato sono stati prodotti nell'ultimo cinquantennio, mentre la curva democratica è aumentata soltanto di un venti per cento di unità. Ciò vuoi dire che nove costruzioni su dieci mezzo secolo fa non esistevano. Anni luce separano il paesaggio conosciuto dai nostri nonni — non troppo diverso da quello immortalato nei secoli precedenti in tele, incisioni, poesie, diari di viaggio — dal paesaggio odierno. Come ha osservato Salvatore Settis, davanti a un quadro di Cima da Conegliano ci sembra di assistere a «scene da un altro pianeta». Studiare il paesaggio nella storia d'Italia, come fa con costante ritorno la Storia d'Italia Einaudi, che a questo tema dedica addirittura uno specifico volume (con contributi di Emilio Sereni, Ruggiero Romano e Giovanni Haussmann, tra gli altri), significa allora entrare in una dimensione esistenziale, sociale e percettiva ormai quasi del tutto preclusa ai modelli di vita contemporanei. Al contrario di quanto pensano i nostalgici di un'inesistente età dell'oro, il nostro territorio è sempre stato antropizzato e piegato alle esigenze dei suoi abitanti. La rivoluzione agronomica romana. Le devastazioni barbariche. La pastorizia. La nebulosa urbana in età comunale. La conquista agricola di altipiani e pendii. I giardini rinascimentali e le ville signorili. Lo sviluppo capitalista nelle campagne. Le bonifiche idrauliche e i dissodamenti. Ma sino a pochi decenni or sono, le alterazioni ambientali non erano riuscite a incrinare quel giusto equilibrio di natura e storia che aveva modellato l'identità geografica della penisola, prima ancora che divenisse un'unità ideale e politica. Soltanto il recente, smodato consumo intensivo del suolo, un elemento non rinnovabile, ha reso evanescente ogni scenario. Ha scritto Antonio Cederna: «L'Italia è un Paese a termine, dalla topografia provvisoria, che si regge su un avverbio: questa foresta non è ancora lottizzata, quel centro storico è ancora ben conservato, questo tratto di costa non è ancora cementificato».
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