Venezia, il direttore Miiller: troppi film italiani al Festival? L'ha chiesto il ministero. A Venezia un festival come ministero comanda Fabio Ferzetti Il Messaggero, 28-AGO-2005
Mercoledì s'inaugura la 62a Mostra del Cinema. Marco Miiller difende il ruolo "di servizio" del suo operato e replica alle accuse ricordando le disposizioni ricevute Il direttore: «Abbiamo fotografato con la massima chiarezza la produzione di quest'anno. Restaurare i film? Nel nostro budget la cifra riservata ai classici ammonta a zero euro» Chi ha detto che tocca a noi scoprire i nuovi registi? Non siamo mica Locarno L'azionista di maggioranza è stato chiaro: in selezione ufficiale almeno sette italiani
MENO tre. A 72 ore dall'inaugurazione della 62' Mostra del Cinema, Marco Miiller ostenta sicurezza. Le accuse piovono fitte, come sempre: festival-supermarket, ritorno all'ordine, giuria di basso profilo, assenze clamorose, eccesso di prudenza. Ma il direttore, al secondo mandato, non si scompone. E contrattacca rivendicando un po' a sorpresa la funzione quasi "di servizio" del suo ruolo. Come a dire: il direttore è un funzionario assediato da mille obblighi e responsabilità, non un creativo libero di creare il cartellone ideale, quindi non disturbate il manovratore. Posizione legittima naturalmente, anche se da un percorso professionale come il suo (il sito della Biennale gli dedica 6 pagine iperboliche) ci si aspetterebbe meno pragmatismo e più utopia. Dunque Venezia alla fine serve "a far uscire bene i film nelle sale"? Non è un po' poco? Che senso ha venire al Lido se poi un giorno o due settimane dopo quei titoli sono tutti in circolazione? «Piano, vediamo di capirci. Si tratta di creare un circolo virtuoso fra le attrattive artistiche di un film, che spetta a noi riconoscere, e il suo valore di mercato, che un festival può rivelare e che non coincide banalmente con gli elementi commerciali. Esempio: il film-sorpresa dell'anno scorso, “Ferro 3” di Kim Ki-duk. Nessuno sapeva nemmeno che esistesse, poi a Venezia hanno fatto a botte per comprarlo, è uscito a Natale ed è andato benissimo anche al botteghino. Sarebbe successo senza la Mostra?». Perfetto. Ma dov'è il Kim Ki-duk di quest'anno? Sulla carta i film del concorso sono decisamente più "garantiti", e una metà di loro escono subito o quasi. Inoltre non c'è nemmeno un opera prima... «Ma Venezia non è Locarno, chi lo ha detto che Venezia deve scoprire i nuovi registi? Se non c'è una rivelazione, meglio lasciarli agli altri festival o alla Settimana della Critica, riservata agli esordi». Scoprire talenti è più rischioso che selezionare nomi affermati. In anni recenti Venezia e Cannes vantavano gli esordienti in gara. «Mah, sarei curioso di vedere quanti di loro hanno poi fatto storia, in un modo o nell'altro. Comunque di questo si può parlare solo a bocce ferme, se i film delle Giornate degli Autori o della Settimana della Critica si riveleranno migliori dei nostri». Esiste anche il rischio contrario, l'autogol del grande nome. Un anno fa è toccato a Placido. Anni prima a D'Alatri con “I giardini dell'Eden”. Il bello è che sono scivoloni evitabilissimi. Se un film non è al di sopra di ogni possibile riserva, spedirlo in concorso è un azzardo se non una cattiveria... «Bisogna anche fare i conti con quello che è pronto, se non mettevamo in gara “Ovunque sei” cosa ci mettevamo?». A parte il fatto che c'erano “Il resto di niente” della De Lillo e “Vento di terra” di Marra fuori concorso, non è obbligatorio avere tre italiani in gara. «Sì, così tutti i giornali saltavano su a dire "vergogna! la Mostra non difende il cinema italiano!”. Mai visto che Venezia non avesse tre italiani in concorso. Il nostro azionista di maggioranza, il ministro della Cultura, è stato chiaro: va bene diminuire il numero totale dei film, ma ci devono essere almeno sette italiani in selezione ufficiale, cioè un ottavo dell'insieme». Prendiamone atto. Sulla carta però il gruppo italiano è il più debole in concorso. Con tutto il rispetto, forse Avati, Cristina Comencini e Faenza non sono i cineasti più innovativi e sorprendenti di questi anni... «Abbiamo fotografato con la massima chiarezza la produzione italiana di quest'anno. I film di Battiato e di Paravidino stanno bene dove sono, uno è troppo sperimentale per la gara, l'altro ha i pregi ma anche i difetti degli esordi». A Locarno c'era “La guerra di Mario” di Capuano, imperfetto ma molto interessante. «Assolutamente, ma abbiamo preferito altri lavori. Succede. Capuano poi lo seguo dai tempi di Locarno, non ho certo cattiva coscienza...». Provo a tradurre: lo volevate fuori concorso e lui ha preferito Locarno. «Proprio così» Tornando agli scivoloni, forse l'episodio di “Ovunque sei” ha spinto Placido a non portare a Venezia “Romanzo criminale”. «Placido non era negativo, anzi». Quindi? «La versione ufficiale del produttore, Riccardo Tozzi, è che il film non era pronto, non possiamo che accettarla. Non ne abbiamo visto nemmeno dei frammenti, fra l'altro ci avrebbe fatto comodo come metro di paragone. E così è stato per Benigni. Se produttore e autore dicono di non aver ancora chi uso il montaggio definitivo devo credergli. “Ovunque sei” fu proposto e spinto moltissimo per il concorso dallo stesso produttore che oggi ci nega perfino la proiezione di “Romanzo criminale”. Perché quei film non sono a Venezia? La domanda va girata ai produttori». Forse i produttori hanno troppa voce in capitolo... Una volta i festival erano più autorevoli. «Niente affatto. Venti, trent'anni fa i registi andavano ai festival con le pizze del film sottobraccio, ma non c'erano figure come gli agenti di vendita mondiali e i produttori avevano meno rischi d'impresa, una volta certi che il film si sarebbe ripagato sul mercato nazionale lo mandavano in giro senza problemi». Per finirla con gli italiani, l'anno scorso Venezia ha rilanciato in grande stile gli "Italian Kings" della serie B, che si difendevano benissimo da soli e oggi si trovano in Dvd perfino negli autogrill, ma i re della nostra serie A di una volta continuano a vedersi pochino al Lido... «Quest'anno, oltre ai Casanova, ci saranno molti classici restaurati, il “Salò” di Pisolini, “Banditi a Orgosolo” di De Seta, l'animazione di Pagot e di Gibba. Ma restaurare film e presentarli non è nei nostri compiti. Ci sono enti che godono di cospicui finanziamenti, tocca a loro occuparsene, anche qui il Ministero è stato chiaro. Alle retrospettive dei grandi, come Lattuada, Germi o Comencini, so che sta pensando la Cineteca Nazionale, anche perché sono autori richiestissimi all'estero». E' a casa loro che rischiano di essere dimenticati. «Ma il rapporto della nostra cultura con i suoi classici del cinema non può risolverlo la Biennale. Bisogna lavorarci 365 giorni su 365». Suona un po' pilatesco. La Biennale funziona tutto l'anno. «Ripeto: non ci sono i fondi. Nel budget delle attività permanenti della Biennale la cifra riservata ai classici è zero euro. I miei desideri non si traducono in finanziamenti. E poi, dopo la retrospettiva del 2004 sono stato chiamato a non occuparmi di restauri. La retrospettiva di quest'anno, la "Storia segreta del cinema asiatico", al di là di un minimo contributo ministeriale la pagano la fondazione Prada e finanziatori asiatici. Ma grazie a quest'iniziativa della Biennale sono stati restaurati dieci capolavori asiatici che stavano marcendo in una caverna a 70 chilometri dall'antica capitale imperiale di Xian e ora, dopo Venezia, verranno distribuiti in nome video dalla Bim. Per il 2006 invece stiamo lavorando su due ipotesi. Una retrospettiva integrale del grande regista cinese King Hu. O la "Storia segreta del cinema spagnolo", sponsor d'eccezione Pedro Almodovar che in primavera avrà finito il suo nuovo film e dovrebbe trovare tempo per noi».
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