Ritornano i Tiepolo e Veneziano prigionieri di guerra Fabio Isman Il Messaggero 25/6/2005
Trieste. La storia è affatto incredibile. Riemergono, dopo 60 anni, 21 importanti dipinti veneziani dal Tre al Settecento, che erano rimasti nascosti: chiusi in casse a Roma, prima per salvarli dalle bombe della guerra, poi dai dubbi su chi ne fosse il legittimo proprietario, se l'Italia, o l'allora Jugoslavia. Un polittico di Paolo Veneziano, ed opere di Vittore Carpaccio e di suo figlio Benedetto, di Alvise Vivarini e Giambattista Tiepolo, che sono, in una certa misura, tra gli ultimi "prigionieri di guerra": fino al 6 gennaio, si possono ammirare a Trieste, al civico museo Revoltella (catalogo Electa, a cura di Francesca Castellani e Paolo Casadio); poi, andranno alle scuderie del Castello di Miramare: nel museo d'arte antica, attualmente in via di completamento. Ma non è ancora tutto: perché oltre a questi dipinti, sono stati restaurati anche preziosi capolavori d'oreficeria e reliquiari del Quattrocento, non ancora esposti; e a Roma resterebbero, ancora come "in ostaggio", almeno altre quattro opere di Vittore Carpaccio: due Profeti con turbante, una Flagellazione e una Caduta di Cristo, che erano a Capodistria e, dal 1940, nessuno ha più rivisto. E allora, raccontiamola tutta, questa storia cui si stenta a credere. Nel '40, in tutt'Italia, parte una grande campagna per salvare l'arte dalla guerra. Pasquale Rotondi, in gran segreto, nasconderà, ad esempio, infiniti tesori a Carpegna e nella Rocca di Sassocorvaro. A villa Manin di Passariano, finiscono 141 casse d'opere provenienti dall'Istria. Quelle terre un tempo italiane, e prima ancora venete, ed ora non più: Pirano, Capodistria, Portorose, Cittanova. Ma dopo l'8 settembre, nemmeno lì sono più al sicuro: nel 1943, vengono restituite ai proprietari (in buona parte privati) che le richiedano. A Passariano resta un nucleo di capolavori, già in sedi demaniali, o chiese. Dopo la guerra, vagano un po' per il Nord: anche a San Daniele, «murati nelle cantine di proprietà della principessa Windisch, già Florio, e della signora Pirona vedova Miliani»; nel '48, approdano a Roma: prima nei depositi del Museo nazionale archeologico, poi in quelli di Palazzo Venezia. Stare mezzo secolo in una cassa, ai quadri non fa bene: nel 2002, quand'era sottosegretario, Vittorio Sgarbi viene a sapere della vicenda; frattanto, i dubbi sulla proprietà sono, almeno ufficialmente, chiariti: vanno restituite solo le opere acquisite dopo il 1944. Da qui i restauri, e l'attuale esposizione, inaugurata dal ministro Rocco Buttiglione; mentre altre opere, di non dissimile provenienza, hanno intanto avuto un diverso destino: la pala di Carpaccio già a Pirano è a Padova, Basilica del Santo; un polittico di Cima da Conegliano, da Capodistria è finito al Palazzo Ducale di Mantova. E già, in Slovenia, qualcuno vorrebbe indietro le opere ora esposte. Più che opere, capolavori; uno degli ultimi di un Vittore Carpaccio evidentemente vecchio e "stanco", che alla fine della sua vita non trova più committenti a Venezia e se li deve cercare altrove; ma l'Entrata del podestà-capitano Sebastiano Contarmi nel Duomo di Capodistria, dove era prima di finire in municipio e al locale museo, ricorda i cortei delle sue Storie, ci mostra la citte come era nel '500, evoca la potenza della Serenissima sulle coste del mare Adriatico Deliziosa la Madonna in trono con angeli musicanti di Alvise Vivarini: tanto che gli austriaci, nel 1802, se l'erano portata a Vienna; eccezionale il polittico a nove scomparti di Paolo Veneziano; interessanti le opere di altri autori, che riecheggiano Giovanni Bellini; fino a una grande pala di due metri di Giambattista Tiepolo. E pregevoli pure l'allestimento e la collocazione: nella casa del barone Pasquale Revoltella, con Ferdinand de Lesseps il "creatore" del canale di Suez, cui Carlo Scarpa aggiunge i locali (con scorci stupendi) per trasformarla in un museo d'arte moderna assolutamente invidiabile, vivificato dalla passione e dall'impegno di Maria Masau Dan che lo dirige. Dalla terrazza del museo, si vede il campanile del duomo di Pirano; su queste opere è facile immaginare che graveranno delle querelles intemazionali anche se, in fin dei conti, stanno «sotto il medesimo cielo», e (dice Sgarbi) «la cosa più importante era trarle dell'oscurità dove erano finite per oltre 60 anni». Assolutamente incredibile, non è vero? |