Magna Grecia terra madre Paolo Vagheggi la Repubblica, Catanzaro, 21/6/2005
Catanzaro Riscoprire la civiltà della Magna Grecia, per troppi anni lasciata nell'oblio, raccontando in una mostra la fatica dell'indagine archeologica, il lento e sempre incompiuto risorgere di quelle antiche civiltà. Ecco Magna Grecia, archeologia di un sapere, allestita a Catanzaro, nel complesso monumentale del San Giovanni (fino al 31 ottobre, catalogo Electa). Vasi, statue in terracotta, rare sculture in marmo tra cui il contestato Trono Ludovisi — che per la prima volta ha lasciato Roma— utensili, oreficerie, corredi funerari, iscrizioni, incisioni e quadri provenienti dai principali musei archeologici dell'Italia meridionale e d'Europa — complessivamente circa 800 pezzi — raccontano questa straordinaria epopea. L'esposizione promossa dall'università Magna Grecia di Catanzaro— di cui è artefice e rettore Salvatore Venuta — è curata dal direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis, con il coordinamento scientifico di Maria Cecilia Parra. Tre le sezioni legate alla storia della Magna Grecia e alla sua graduale riscoperta dal Settecento in poi. Spiega Salvatore Settis: «Quello che la mostra propone è il racconto dì una scoperta, anzi di una doppia scoperta. Da un lato, la "scoperta della Magna Grecia", prima attraverso i ritrovamenti occasionali e la passione dei collezionisti che li raccolgono e ne promuovono lo studio iniziale; poi attraverso l'opera sul territorio dei pionieri (come Paolo Orsi, Quintino Quagliati, Umberto Zanotti Bianco, Paola Zancani Montuoro), fra l'ultimo Ottocento e il primo Novecento; e infine con il sistematico lavoro delle strutture pubbliche di tutela, le Soprintendenze. Ma con questa scoperta se ne intreccia un'altra, non meno importante: la "scoperta" dei metodi scientifici dell'archeologia, il suo consolidarsi come disciplina, la legittimazione che le viene da importanti risultati conseguiti sul campo dello scavo, ma anche su quello dell'interpretazione. In tal modo l'immagine stessa della Magna Grecia si modifica di continuo. Per fare un solo esempio, gli importantissimi scavi di Rocavecchia in Puglia, a cui è dedicata una sezione, rivelano una frequentazione micenea delle coste adriatiche che crea significative sintonie e sincronie con gli eventi dell'Egeo, dell'assedio di Troia, dei poemi di Omero». Nelle radici greche ci sono i germi di una comune identità nazionale? «In realtà, quando si vollero cercare nel passato le ragioni dell'identità del presente, e in particolare quelle di un'Italia unita, i Greci dell'Italia meridionale e della Sicilia non erano dei buoni antenati, perché potevano proporre modelli identificativi solo per una metà del Paese. Non per l'Italia settentrionale, non per le terre etrusche e umbre, non per buona parte dell'arco adriatico, non per la stessa Roma. Perciò si preferirono spesso i Romani: perché sotto di essi l'Italia fu politicamente unitaria, e per giunta con Roma capitale (anche se, dovremmo aggiungere, capitale di un impero ben più vasto dell'Italia). La massima insistenza su questo punto fu naturalmente sotto il fascismo». E oggi? «Oggi i Greci possono invece essere una componente essenziale, vitale di una visione pluralistica dell'identità nazionale, aperta a vari apporti (per esempio, anche altri "occupanti" di porzioni d'Italia, dai Punici agli Arabi, dai Normanni agli Spagnoli, dagli insediamenti ebraici a quelli di albanesi, catalani, tedeschi). Va evitato invece, io credo, il rischio di costruire tante subidentità locali e localissime. Le identità culturali vanno individuate e promosse con piena coscienza del fatto che esse, storicamente, non nascono "per distinzione" ma "per confluenza", mediante un processo osmotico di dare e avere. Questo è vero dappertutto, e lo è in massima misura in Italia». Questa mostra mette in rilievo i problemi di tutela e conservazione del patrimonio archeologico. Qual è la situazione? «Oggi come sempre, non si dà tutela senza conoscenza, cioè senza ricerca. La progressiva burocratizzazione delle strutture ministeriali — in particolare con l'infelice riforma Urbani — tende a farcelo dimenticare. E una mostra come questa ha fra i suoi scopi di ricordarcelo. Come si potrebbe tutelare ciò che non si conosce? E che senso potrebbe mai avere distinguere, burocraticamente, "tutela" e "valorizzazione", se entrambe devono avere il proprio fondamento nella ricerca e nella conoscenza? La ricomposizione dell'unità concettuale e operativa della tutela dovrebbe avvenire sul campo, ma è oggi fortemente a rischio. L'esposizione, insistendo sull'intimo legame fra ricerca, tutela, valorizzazione, fruizione, dovrebbe invitare tutti a riflettere. Le Soprintendenze territoriali (non solo quelle archeologiche) dovrebbero essere rinsanguate con nuovo personale, e non sottomesse alle burocratiche mediazioni di "direzioni regionali", bensì poste in condizione di operare mediante un'ampia autonomia gestionale. Il rapporto con regioni, province e comuni dovrebbe essere incentrato non sui conflitti di competenza (come fatalmente oggi è in conseguenza della confusa riforma del titolo V della Costituzione), bensì su un tavolo di concertazione, su un "patto per il patrimonio" che desti e attragga la coscienza civile e il senso di appartenenza dei cittadini».
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