Buttiglione e il lascito Urbani: più che beni, grane Attilio Giordano Venerdì di Repubblica 10-GIU-2005
ROMA. Un vecchio assessore socialista di una grande città del Nord raccontava spesso questa storiella: «Ogni volta che c'era da fare la Giunta, dopo aver stabilito chi andava all'urbanistica, ai lavori pubblici, al bilancio, si arrivava alla cultura. Improvvisamente mi guardavano tutti. Ma tu, non hai scritto un libro di poesie? Toccava sempre a me...». Circondato da scarso interesse, un nuovo ministro dei Beni culturali, Rocco Buttiglione, cattolico, pugliese, filosofo, ha preso di recente possesso del dicastero che è stato retto per quattro anni da Giuliano Urbani, bocconiano, tra i fondatori di Forza Italia. Funzionali adusi ad attraversare tutte le stagioni hanno commentato: «E finito il tempo delle cravatte larghe con il nodone e dei modi spicci sintetizzati da quel sorriso freddo e immoto. Siamo tornati alle vecchie cravatte strette e democristiane». Naturalmente non sono solo le cravatte ad essere cambiate. Buttiglione ha confidato che, se tutto va bene, prevede di governare la cultura per otto mesi. Ma che è ben determinato a farlo davvero. Si è portato dietro dal ministero delle Politiche comunitarie i più stretti collaboratori e, raccontano, ha cominciato a guardarsi in giro: «Cortese, pronto all'ascolto. Una ventata di Prima repubblica». Che cosa trova? Urbani, a giugno, ha consegnato a Il Giornale dell'arte, autorevole pubblicazione mensile della editrice torinese Umberto Allemandi, un bilancio un po' sbrigativo e supponente: «L'ho detto a Buttiglione: ho già fatto tutto». Jiuniglione non ha commentato. Si è limitato a un diplomatico: «Sono orgoglioso di prendere il posto di Urbani». Un ministro che, per quattro anni, quel posto l'ha detestato. Che cosa lascia? Intanto il ricordo del suo malumore. Poco presente, soprattutto all'inizio, Urbani non nascondeva che avrebbe voluto il ministero degli Esteri o la presidenza della Rai. E la cultura, che per Berlusconi era un ministero di nessun interesse, suonava come una specie di offesa: «Se il padrone non tiene a quel posto» commenta uno storico funzionario dei Beni culturali «il dipendente si sente offeso dall'averlo ottenuto». L'inizio è tempestoso, anche perché, come sottosegretario, Urbani si trova assegnato Vittorio Sgarbi, che dà segni di voler fare lui il ministro. Si porta la sua corte colorita, da interviste urlate, entra a piedi uniti nell'ovattato mondo del ministero. E, tuttavia, oggi, sono molti quelli che dicono: «In fondo con Sgarbi si poteva parlare. Nel senso che sapeva di cosa si trattava». Con Urbani si parlava difficilmente, arrivava in ritardo agli appuntamenti ufficiali e spesso non sapeva cosa dire. «Sembrava soffrire tutto ciò che è pubblico, che è apparato. Avevamo sempre la sensazione di essere un peso, una cosa da eliminare», dicono al ministero. E, non di rado, se c'era qualcosa di importante da realizzare si chiamavano, a pubblicizzarlo, società private. «Milanesi che poi finivano regolarmente per chiedere a noi. Perché non ci capivano niente». Eppure, quello che doveva essere il privatizzatore della cultura, il modernista, ottiene un risultato paradossale. Dice Rosanna Cappelli, archeologa, direttore del settore Musei e beni culturali della casa editrice Electa: «Obiettivamente l'apporto dei privati, il loro coinvolgimento, in questi ultimi anni è scomparso del tutto. E non è comunque paragonabile all'interesse che si era creato, per esempio, nel periodo di Veltroni». Electa è uno dei più rilevanti privati che collaborano con il ministero, gestendo servizi di libreria in 47 siti o musei italiani. Ed è la Cappelli per prima, studiosa di questi temi (suo Politiche e poietiche per l'arte, Electa, pp. 166, euro 12) a ricordare con quali difficoltà il lento e monumentale apparato italiano aveva cominciato ad accettare questi estranei: «Quando realizzammo la prima libreria al Colosseo, incontrammo molta ostilità. Eppure era un buco di dodici metri quadri. Addirittura si scherzava sul fatto che l'operatore avrebbe dovuto essere un coreano. Sa, quelli piccolini». In Italia l'apporto dei privati al nostro grande patrimonio storico-artistico è stato debole ed economicamente poco rilevante. Osserva Umberto Allemandi, direttore ed editore del Giornale dell'arte: «I privati intervengono se esiste, almeno, una prospettiva di redditività. In tutto il mondo. Il mito dei privati che gestiscono l'arte è una sciocchezza perché l'arte non è remunerativa né a New-York, né a Parigi. Semmai è remunerativo il contesto, l'attrazione che può creare. Ma in Italia questo aspetto non è stato mai affrontato davvero». Come per le grandi opere, si scopre che i mitici privati se non fanno soldi non si muovono. Il che non dovrebbe essere una novità. Dunque, il bocconiano Urbani, dal sorriso crescentemente disgustato, non fa eccezione: parla di privatizzare, ma non privatizza nulla. Anzi. La sua vera battaglia sembra essere tutta burocratica e all'antica. «Se la Melandri aveva aperto la porta alle nomine di dirigenti e a una crescente burocrazia centrale, Urbani la sfonda: si arriva a una pletora di direttori generali», ricorda l'ex sovrintendente archeologico di Roma, Adriano La Regina. Nomine che hanno un movente funzionale? «Soprattutto nomine di bottega, miserie». Significa che il ministero Urbani, nel 2004, conta 48 uffici centrali e 161 periferici. 1 dirigenti, già cresciuti con Giovanna Melandri, diventano una folla. Tra l'altro questo crea una grande incertezza nei cittadini. A chi rivolgersi? Ai soliti sovrintendenti? O a quelli regionali? E, nella confusione, si diluisce anche il concetto di competenza e responsabilità. Tutto questo costa soldi in più che, in un ministero poco ricco, vanno sottratti alla vecchia, tradizionale, gestione periferica, quella reale: sovrintendenze, biblioteche, archivi vedono scomparire i loro pochi fondi. Si sollevano, ma non sono ascoltati. Se un patrimonio di secoli si disperde, invecchia, decade, chi se ne accorgerà? La Regina è un uomo simpatico, che scoppia talvolta in risate contagiose. La sua storia è emblematica: «Che ha fatto Urbani? Per quello che mi riguarda, mi ha cacciato a pedate». La Regina è un uomo colto il cui obiettivo è sempre stata la tutela. Si scontrò, per questo, con sindaci come Carraro o Rutelli (a cui bloccò il famoso sottopasso del Giubileo). È la rappresentazione del vero potere dei sovrintendenti, il potere di decidere sul territorio, un potere immenso. Che Urbani ha contrastato in ogni modo. La sua riforma, chiamata un po' pomposamente Codice, tra i capisaldi ha proprio la nuova struttura del ministero. Immenso cervello a Roma, con raffica di nomine, poteri ai sovrintendenti regionali, di fatto «prefetti» controllori del potere dei sovrintendenti locali. «Solo che il sovrintendente regionale è di nomina politica, gli altri sono esperti della materia entrati per concorso» ricorda La Regina. La politica, anche qui, vuoi mettere le mani su un settore gestito «professionalmente» (come dovrebbero essere la Rai, la sanità, la magistratura...}, che rivendica autonomia. Se molti tra questi nuovi direttori sono, comunque, anche dei tecnici, si danno casi che fanno scalpore: in Piemonte, Mario Turetta vanta meriti scientifici che si sintetizzano nell'essere stato segretario di Urbani al ministero. Nasce anche Arcus Spa (per lo sviluppo dell'arte, della cultura e dello spettacolo) che, sempre sulla linea di azzerare il potere dei tecnici, è una società privata a capitale pubblico che fa ciò che vuole. Di fatto chi decide che cosa finanziare è il potere politico. Un esempio? Parma, città del ministro Pietro Lunardi (che, tra l'altro, è quello che finanzia Arcus con il 3 per cento sulle Grandi Opere) accentra moltissimi finanziamenti culturali «verdiani» (sei milioni nel 2004). Ai privati pensa il ministero dell'Economia che, pur non realizzando in realtà quasi nulla di concreto, si lancia nelle operazioni di cartolarizzazione e messa in vendita di edifici storici, di spiagge, di beni ambientali di ogni tipo. Il professor Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa oltre che valentissimo storico dell'arte, combatte esponendosi molto contro questa lenta sottrazione dei poteri pubblici. Racconta: «Feci, tra l'altro, vere e proprie indagini sulle cartolarizzazioni, trasformandomi in una sorta di detective e scoprendo che le due Scip, società per la cartoìarizzazione di immobili pubblici, sono gestite da un amministratore unico, cittadino britannico, e hanno capitale proveniente da due società olandesi. Appartengono a una tipologia di trust funds denunciata, per la sua struttura tutt'altro che trasparente, dall'organizzazione intergovernativa mondiale contro il riciclaggio di denaro e dal governo degli Stati Uniti». Settis combatte contro condoni, ecomostri, trucchi legislativi. Ma soprattutto insiste sulla temuta svendita. Riporta, in uno dei suoi articoli, il giudizio dato all'estero, per esempio dalla tedesca Suddeutsche Zeitung. «Berlusconi passa per un fautore della modernizzazione, ma queste misure non hanno nulla di moderno, ricordano al massimo la burocrazia di corte settecentesca. I moderni, al contrario, hanno capito da gran tempo che cultura e bellezza sono parte essenziale delle infrastrutture di un Paese». Ma Urbani da «cultura e bellezza» non sembra attratto. Nel maggio 2002, II Museo Egizio di Torino, il secondo del mondo dopo quello del Cairo. Il presidente della Fondazione che lo guida è Alain Elkann, proveniente dal Gabinetto di Urbani ad un pranzo per la presentazione del progetto del nuovo Maxxi, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, progettato dall'architetto iracheno Zaha Hadid, si lascia sfuggire: «Dovrò davvero occuparmene, di questo ministero». Il fatto è che chiede soldi e glieli tagliano, che ogni giorno deve leggere sui giornali che cosa il collega dell'Economia ha deciso sui beni di sua competenza, che le sue leggi vengono modificate in Parlamento dai colleghi del Polo. Se non bastasse c'è Sgarbi che lo accusa di tutto (ne otterrà la cacciata, infine, ma dopo un salasso d'immagine). Resta solo, circondato da una crescente burocrazia «esperta», da lui stesso rafforzata, ma che lo annoia. Quando può, scappa. Con l'avvento del Berlusconi bis dichiara che lascerà il ministero e ottiene una poltrona alla Rai, di seconda fila, nemmeno da abbonato. Buttiglione - nuovo ministro noto nel mondo soprattutto per le polemiche sui gay - ha poco tempo, ma prende l'incarico con entusiasmo. «Non è poco importante questo nuovo ministro» commenta La Regina «poiché può ancora tornare indietro sulla riforma, che prevede di poter essere emendata entro due anni. Speriamo lo faccia». Ma non ci sono grandi attese. Un sovrintendente potente come Claudio Strinati, responsabile dei Musei romani, non ostile a Urbani («con me è sempre stato gentile e disponibile»), fa una considerazione più generale: «Quando iniziai, dopo il concorso negli anni Settanta, ero il giovane ispettore di sovrintendenza, a Genova. Avevo 26 anni, pochi mezzi, vivevo decentemente di stipendio. Poi feci la mia carriera e ora sono qui. Le pare banale? Lo è. Ma il fatto è che non succede più. Oggi la mia giovane ispettrice ha 44 anni. Questo vuoi dire che lo Stato, non solo da noi, ma in tutte le sue articolazioni, sta andando a morire. Ci sono precari, gente che passa. Va morendo la struttura dell'amministrazione. Mi sento anch'io, come tanti colleghi, in un tunnel buio di cui non vedo l'uscita. Tra dieci anni, tra venti, che resterà? Lo Stato ha rinunciato alla sua funzione, lentamente e senza clamore. Sarà che invecchio, ma non riesco a immaginare che cosa lo sostituirà».
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