Poveri istituti, povera cultura Valerio Calzolaio L'Unità, 21/04/2005
l centrodestra ha deciso di mettere in soffitta la riforma degli istituti italiani di cultura all'estero. Tutto va rinviato alla prossima legislatura. E l'asfissia delle nostre rappresentanze continua. Oggi l'Italia ha una novantina di sedi culturali operative all'estero, fra istituti e sezioni distaccate, effettivamente aperti e attivi. Circa la metà sono in Europa, il 20% nelle Americhe, il resto negli altri continenti, solo un paio nell'Africa subsahariana. Un tentativo di riforma fu realizzato nel dicembre 1990 con risultati parziali e contraddittori. Di riforma “strutturale” si è ricominciato a parlare nel corso della scorsa legislatura (soprattutto su impulso di Furio Colombo), arrivando a definire un testo unitario delle commissioni alla Camera. All'inizio dell'attuale legislatura l'iter è ripreso. A parole, governo e maggioranza di centrodestra hanno dichiarato di voler modificare la normativa; nei fatti da una parte hanno rallentato e boicottato la discussione parlamentare, dall'altra parte hanno diminuito risorse e personale degli istituti, inventando discutibili nomine di direttori che hanno suscitato proteste diffuse nei paesi interessati e paralizzato le attività in molti casi. Non è un caso: il governo Berlusconi ha evitato ogni “laccio” istituzionale e sono rimaste al palo tutte le riforme “promesse” anche in campo internazionale (cooperazione allo sviluppo, CGIE, procedure ratifiche, imposizione sulle transazioni valutarie, commercio estero, funzionari internazionali). La prima proposta di legge sugli istituti italiani di cultura all'estero è del gruppo ds, riprende il lavoro istruttorio di Colombo, risale al gennaio 2002. Per due anni (cioè metà dell'intera legislatura!) il governo (nella persona del sottosegretario Boniver) ha impedito che la discussione iniziasse, chiedendo di attendere il disegno di legge del Ministero degli Esteri. Prendetevi i verbali delle commissioni esteri e cultura, incredibile ma vero! Anche il gruppo di AN sollecitava un confronto dimerito sulla riforma, nel giugno 2002 avevano presentato anche loro un testo. Niente! Ogni volta, di fronte alle sollecitazioni di deputati e gruppi, di opposizione e di maggioranza, si chiedeva ancora qualche settimana, qualche mese, …il governo era quasi pronto, eccoci arriviamo… e via, opinioni e dichiarazioni in libertà, contraddittorie fra di loro, del sottosegretario delegato (era Baccini) e dei vari ministri (ricordate?: Ruggiero, Berlusconi, Frattini, e poi Fini!). E conflitti ovunque, a Londra, a Bruxelles, a Berlino, a Mosca (i casi più eclatanti), conflitti con il personale a contratto, con i direttori di ruolo, con le altre direzioni del ministero. Il testo del governo è infine formalmente annunciato nel dicembre 2003, la discussione parlamentare inizia nell'aprile 2004. E subito chiedono audizioni, verifiche, approfondimenti. Vengono decise e realizzate. Bene, controllate chi ha partecipato, chi ha fatto domande. I deputati presenti (sempre o spesso) eravamo cinque o sei, i relatori di maggioranza non sono venuti quasi mai, frequenti gli spostamenti e i rinvii. È passato un altro anno, l'indagine conoscitiva non si è nemmeno chiusa. L'altro giorno hanno convocato gli uffici di presidenza delle commissioni per dire che ormai è tardi, manca poco allo scioglimento delle camere, governo presidenti relatori gruppi di centrodestra sono tutti d'accordo, meglio non fare nulla. Poveri istituti, povera cultura. Non c'è uno solo dei soggetti esterni al Parlamento che non considerasse urgente e decisiva la riforma. E credo non ci sia un solo cittadino italiano che frequenti capitali di altre nazioni che non abbia sperimentato l'utilità di un centro propulsivo di idee, attività, eventi, immagini, relazioni del nostro “patrimonio” di storia, arte, spettacolo in tutte le forme, antiche e moderne. Nella nostra proposta di legge avevamo anzi insistito sulla necessità di rendere autonoma questa “propulsione” da dinamiche burocratiche e contingenti, garantendo una programmazione pluriennale, costituendo un dipartimento indipendente, coinvolgendo altre amministrazioni italiane, anche regionali e locali, potenziando personale e fondi. Non si tratta solo di promuovere la “lingua”, talvolta per scambiare culture occorrono altre "lingue". Non si tratta tanto di interloquire con gli italiani residenti all'estero, quanto di collegarsi ad ogni soggetto interessato a conoscere l'Italia e gli italiani. Tanti istituti continuano a farlo benissimo, di propria iniziativa, con passione e competenza; quando è capitato di visitarli in questi anni abbiamo spesso trovato luoghi vitali, fantasia radicamento cultura. Ricordiamolo, quando governeremo ancora! E la riforma servirà subito, nei primimesi della prossima legislatura, superando resistenze e cercando il consenso più ampio. Troviamo il modo di coinvolgere nella “fabbrica” dell' Unione anche coloro che operano all'estero, le loro proposte, le loro esigenze. È un'altra Italia di cui non possiamo fare a meno. |