Curatola: In Iraq per salvare l'arte islamica Giovanna Dal Bon Corriere del Veneto 10/4/2005
È uno degli esperti impegnati ad avviare l'opera di recupero e salvaguardia del patrimonio artistico iracheno. In quel Paese ha trascorso un lungo periodo, chiamato dal Cpa (Civil provisional authority, il governo provvisorio). Giovanni Curatola, 52 anni, toscano, da molti anni abita a Venezia ed è docente di Archeologia e Storia dell'arte musulmana all'Università di Udine. Segno distintivo: un papillon sgargiante che non ha omesso di indossare neppure nel periodo nevralgico a Bagdad. Quando è iniziata la sua missione in Iraq? «Nel dicembre 2003, presso il governo provvisorio guidato dal plenipotenziario di Bush, Paul Bremer, fino al 28 giugno scorso. Un ministero è stato offerto come direzione politica agli italiani, con un ambasciatore, Mario Bondioli Osio, sotto la cui guida abbiamo operato». In quanto archeologo ed esperto di arte islamica qual era il suo compito? «Indipendentemente dalle nostre specifiche competenze ci siamo trovati a occuparci di tutti i problemi riguardanti la cultura, a 360 gradi: dalla danza al cinema, alla musica, le biblioteche... un'emergenza da pronto soccorso. Ognuno poi è intervenuto in modo mirato. Io, in quanto islamista, mi sono occupato del monitoraggio capillare dei monumenti, delle moschee». Qual è stato il primo impatto con la realtà dissestata di Bagdad? «Nessuno era ancora andato a controllare lo stato di salute dei monumenti. Sono subito andato in giro per la città e mi sono reso conto che i danni alle opere d'arte erano molto inferiori a quanto ci si aspettava». Come avete operato? «Dall'inizio in sinergia con gli iracheni. Mi è stato chiesto di che cosa avevo immediato bisogno. Ho risposto: una macchina per gli spostamenti, un autista, due storici dell'arte e un fotografo. Prendevo ogni giorno precauzioni per la sicurezza, partivo sempre a orari diversi. Gli spostamenti venivano resi noti all'ultimo momento». Dov'era il vostro quartier generale? «Dentro la green zone, con le altre forze d'occupazione. Stavamo nel Palazzo di Saddam, spaventosamente enorme». Come hanno preso gli iracheni questa «intromissione» nelle loro questioni? «Come solidale condivisione del loro dramma. Il nostro atteggiamento è stato da subito quello di far capire che non si era lì per comandare o decidere, ma per mettere a disposizione le nostre esperienze e collaborare. Si è trattato soprattutto di instaurare rapporti personali, di correttezza. Il ministro alla Cultura, Mufid al Jazairi, è una persona di grande fascino e capace; un curdo, con il quale si è instaurato un rapporto di reciproca stima e collaborazione. Va detto che a differenza degli americani, che hanno modalità operative diverse, e diverse responsabilità, noi italiani abbiamo avuto un contatto più immediato. E poi, dal punto di vista archeologico, museale, sono quarant'anni che operiamo in Iraq. Per esempio con il Crast, il Centro ricerche archeologiche e scavi Torino, diretto dal professor Giorgio Gullini, recentemente scomparso. Spesso mi sono sentito dire "abbiamo bisogno di avere accanto degli amici"». Come era scandita una sua giornata tipo a Bagdad? «Mi alzavo presto la mattina, colazione alla mensa in uno degli enormi saloni del palazzo di Saddam. In ufficio per controllare le email e programmare gli spostamenti. Alle 7.30 si univa il Consiglio dei ministri. Poi discussione sul da farsi con il ministro della Cultura e alla direzione delle antichità che coincide con il Museo Nazionale di Bagdad. Poi la mia giornata trascorreva fuori dalla green zone anche se per mandato saremmo dovuti stare all'interno degli uffici». Che cosa contiene il Museo Nazionale di Bagdad? «Un enorme patrimonio. È un museo gigantesco, con circa 600mila pezzi di cui 200mila sono tavolette con scritte cuneiformi». Si è tanto parlato delle ruberie e dei saccheggi. Che cosa è rimasto e in quali condizioni? «Dopo il saccheggio sono spariti circa 10mila pezzi, questa è più o meno la stima. Il materiale restante è stato messo in sicurezza. Sono stati trasferiti nei depositi tutti i pezzi custoditi nelle vetrine danneggiate. Il museo adesso è chiuso, apre solo per gli addetti ai lavori o per personalità di passaggio a Bagdad. Si tratta di rimettere in moto la macchina amministrativa, trovare i finanziamenti, e farlo ripartire». Qual è l'intervento italiano in questa direzione? «Abbiamo curato interamente un settore molto importante, che è quello del restauro, di concerto con il nostro ministero dei Beni culturali. Abbiamo ristrutturato il laboratorio di restauro che non funzionava da anni, mancavano tutte le strutture. Abbiamo fatto lezione agli iracheni perché familiarizzassero con le tecniche di restauro. C'è un progetto nostro per far riaprire tre sale del Museo tra cui la sala Hatra che riguarda uno scavo molto importante che abbiamo fatto noi italiani. Fino alla fine di giugno del 2004 questo intervento è stato possibile, poi le condizioni di sicurezza sono diventate proibitive. Noi stiamo andando avanti, vedremo se ci permetteranno di ritornare. C'è un progetto, in via di costruzione, del ministero degli Esteri e del Cnr, di fare un Museo virtuale di Bagdad». Quali sono i prossimi progetti? «Una mostra in maggio a Udine con il materiale che documenterà le varie attività italiane in Iraq per la salvaguardia del patrimonio artistico. Fra queste, quella importante dei carabinieri nella regione di Dhi Qar (Nassiriyya)». Che cosa le è rimasto da questa esperienza? «La sensazione di essere stato utile».
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