Quanto rende la bellezza italiana Silvia dell'Orso 10-APR-2005, Il Sole 24 ore
Non c'è da rallegrarsi, ma neppure dì che rattristarsi troppo a osservare l'andamento dell'economia e della politica della cultura in Italia negli anni 90. La cultura è stata riscattata dalla marginalità in cui era confinata e considerata a tutti gli effetti un settore rilevante dell'attività economica, il ministero per i Beni culturali, forte dell'ampliamento delle sue competenze, è stato ammesso al tavolo del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) e la spesa pubblica per la cultura — a tutti i livelli, ma soprattutto quello locale —- è aumentata del 40%, con un relativo incremento del valore aggiunto superiore al Pil nazionale. È l'Italia del decennio compreso fra il 1990 e il 2000 quella passata al setaccio nel Rapporto sull'economia della cultura, curato da Carla Bodo e Celestino Spada. Seguito ideale dell'analoga ricognizione effettuata sugli anni 80, quando peraltro si era registrato un aumento della spesa per la cultura decisamente superiore (+90%) rispetto à quello che ha caratterizzato i due ustri ora esaminati (+32,6%). Un affondo nei variegati tenitori delle attività e delle produzioni culturali che, secondo una recente e programmatica indicazione dell'Unione europea, comprendono i beni culturali, lo spettacolo dal vivo, gli audiovisivi e l'industria editoriale (in più il nostro ministero si occupa di sport!).
Il Rapporto sottolinea come gli anni 90 abbiano visto da un lato un nuovo protagonismo delle Regioni e degli enti locali nel campo della cultura e dall'altro un federalismo rimasto sostanzialmente sulla carta. Così come fa notare che se la spesa pubblica è aumentata, non altrettanto si è verificato con quella privata che, invece, vuoi per l'inadeguatezza del pubblico, vuoi per la mancanza di regole chiare, stenta a decollare. Ciò non toglie che l'andamento economico del settore sia in generale positivo, anche se colpisce la sperequazione tra lo sviluppo del comparto relativo ai beni e alle attività culturali — che ha beneficiato degli investimenti pubblici nei restauri, del rinnovamento del sistema dei musei e della complessiva valorizzazione del nostro patrimonio — e la debolezza delle industrie culturali, tra radiotelevisione, cinema, editoria, musica registrata e nuovi media. A questo proposito il decennio ha assistito a una forte riduzione dell'intervento pubblico che non ha coinciso con un incremento dell'apporto privato, creando una situazione tutt'altro che rosea sia nel settore televisivo, dove permane inamovibile il duopolio, sia in quello audiovisivo e nell'editoria. Per non dire che gli anni 90 hanno visto fra l'altro la vendita di casa Ricordi, Fonit-Cetra e non solo, segnando di fatto il tramonto nel cinema e nella musica delle imprese italiane non collegate alla tv. Un dato, però, colpisce più di altri ed è che, da tutti i punti di vista, la divaricazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno si è ulteriormente aggravata. Soprattutto sul piano della domanda di consumi culturali che è rimasta ben al di sotto dell'incremento medio nazionale anche in settori, come musei e spettacoli, nei quali si è avuta una tendenza positiva. Mentre i consumi sono addirittura crollati laddove in altre zone la domanda è regredita, per esempio nella diffusione dei giornali.
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