La grammatica del passato - «Fare memoria, costruire identità», Paolo Pezzino 08.04.2005, Il Manifesto
«Fare memoria, costruire identità», è il titolo del decimo numero della rivista «Novecento». La parzialità del ricordo ma anche le potenzialità del testimone nel cogliere un avvenimento cruciale sono la posta in palio di un uso pubblico della storia che ha come contraltare il pressante invito, anche mediatico, all'esercizio della memoria Ma la scrittura e la sacralizzazione della storia possono avere degli effetti collaterali, quali l'imposizione di un ricordo per legge o la costruzione identitaria di una realtà politica. Come documentano i saggi della rivista dedicati alla discussione pubblica sulla costruzione europea
Si sente ripetere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato: la selezione degli elementi di questo da conservare serve a trasmettere da una generazione all'altra una storia «dotat[a] di senso», ed in quanto tale, rileva Yosef Hayim Yerushalmi, sostiene «quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la hallakhah di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della "storia" cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero» (hallakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la strada). In tal modo l'esercizio della memoria (come e cosa ricordare) è strettamente connesso a quello dell'oblio, come sottolineava Nietzsche in un brano molto noto: «è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare [...] La serenità, la buona coscienza, l'allegra attività, la fiducia nell'avvenire, tutto ciò dipende, nell'individuo come nel popolo [...] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente [...] L'antistorico e lo storico sono ugualmente necessari per la sanità di un individuo, di un popolo o di una civiltà». E qualche anno dopo Ernest Renan, nella sua famosa conferenza tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882 su Che cos'è una nazione?, ricordava che «l'oblio, e dirò persino l'errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta un pericolo per le nazionalità».
Le battaglie del presente
Ovviamente non si tratta di un'operazione indolore: «La memoria e l'oblio - ha scritto Remo Bodei - non rappresentano [...] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l'identità, specie quella collettiva. Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d'eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano alcuni tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento». Inoltre, se la memoria serve a fondare una comunità dotandola di unità di passato e di comunità di intenti, questa operazione può anche compiersi con un'ossessiva ripetizione di fratture e torti che spesso affondano le radici in un tempo remoto, individuando un nemico presunto, da combattere ed espellere dal corpo sano, e identitariamente omogeneo, della nazione.
Questa lunga introduzione al numero 10/2004 di Novecento, serve a mostrare l'opportunità della scelta di dedicare un numero monografico a Fare memoria, costruire identità: rispetto al dilagare del termine e degli inviti alla memoria, ricorda il direttore Luca Baldissara nell'introduzione, la rivista ha deciso di «contribuire ad illuminare criticamente alcuni snodi concettuali e metodologici del ricorso alla memoria (sia come fonte che come oggetto dell'indagine), e di riflettere sugli usi pubblici e sulle manipolazioni politiche cui è sottoposta nell'arena del dibattito politico-culturale».
Scelta quanto mai necessaria, quella di restituire complessità e spessore critico al termine, al di fuori di ogni ingenua od entusiastica sua proposizione. La memoria è sì un discorso del passato, ma che interagisce sempre con il presente, con l'attualità nella quale vive il testimone (sia esso un soggetto individuale, una comunità nazionale, una nazione, o anche un insieme di popoli che si tende a legare in un'identità sopranazionale, come nel caso dell'Europa): un'osservazione espressa con grande efficacia da Ascanio Celestini, nella bella intervista rilasciata a Luca Baldissara e Andrea Rapini sui rapporti fra il suo teatro, la storia e la memoria: «A me interessa molto di più il peso che ha oggi la memoria per le persone. A me interessa quello che succede oggi. E' chiaro che chi intervisto mi spiega il presente attraverso il passato, ma è del presente che parla! [...] Il passato sta lì perché altrimenti non riuscirebbe a gestire le immagini che ha oggi nel presente, ma è del presente che parla». E anche Enzo Traverso, nel suo saggio su Storia e memoria. Gli usi politici del passato (che insieme a quelli di Fabio Dei su Antropologia e memoria e di Emanuela Fronza su Diritto e memoria compone la prima parte, di metodo, del numero), ricorda che «la memoria, sia individuale che collettiva, è una visione del passato sempre mediata dal presente».
Del resto già da tempo gli storici hanno inziato a parlare di un «eccesso di memoria» (Charles Maier), di un «boom della memoria» (Jay Winter), di un'«era del testimone» (Annette Wieviorka); alcuni, come Pierre Nora, curatore della monumentale opera su Les lieux de mémoire, hanno strettamente contrapposto la memoria e la storia, in quanto la prima «è un assoluto», mentre «la storia conosce soltanto il relativo».
Una contrapposizione questa che peraltro non condivide Enzo Traverso: egli è ben consapevole che «la memoria singolarizza la storia. La sua percezione del passato è irriducibilmente singolare. Là dove lo storico vede una tappa di un processo, un particolare di un quadro complesso e mobile, il testimone può cogliere un avvenimento cruciale, lo stravolgimento di una vita». E tuttavia Traverso non solo ritiene che si sottovalutino i rischi di manipolazione e «sacralizzazione» che appartengono anche alla scrittura della storia, ma recupera l'utilità di un serio confronto degli storici con la memoria - individuale o collettiva che sia - purchè questa venga ricondotta al suo «contesto più generale[...], inscrive[ndo] questa singolarità dell'esperienza vissuta in un contesto storico globale, tentando di illuminarne le cause, le condizioni, le strutture, la dinamica d'insieme».
La memoria infatti ha una sua specifica «temporalità», che lo storico può utilmente ricostruire andando a chiedersi per quali motivi, in quali circostanze, sotto quali influssi determinate memorie si impongano come egemoni ed altre vengano invece emarginate, se non definitivamente cancellate. Si riprenda ad esempio la stessa memoria della Shoah, che si è ormai imposta come elemento centrale di riflessioni sul Novecento (tanto da suscitare perentorie affermazioni sull'unicità di quell'evento che per lo storico o sono scontate, in quanto ogni evento è unico e particolare, o sono devianti, in quanto bloccano i meccanismi di comparazione così importanti per la narrazioni storica in quanto consentono di smontare gli avvenimenti, cercare connessioni non immediatamente percettibili e scontate, ricostruire genealogie): ebbene, fino agli anni Sessanta la consapevolezza di quell'evento era ben debole nella coscienza mondiale, tant'è che un lavoro fondamentale come quello di Hilberg su La distruzione degli ebrei d'Europa, uscito nella sua prima versione nel 1960, solo con gli anni Ottanta diventò opera di riferimento (in Italia è stato pubblicato, da Einaudi, solo nel 1995).
Storicizzare la memoria apre perciò importanti campi d'indagini per lo storico, certamente a patto che questo eviti di diventare «un semplice avvocato della memoria» e di perdere di vista il contesto generale, ma dando comunque per scontato che, «a meno di riproporre una visione obsoleta (e illusoria) della storia come scienza positiva, "assiologicamente neutra", si è ben costretti a riconoscere che tutto il lavoro storico veicola anche, implicitamente, un giudizio sul passato». Verso la stessa conclusione, in una singolare coincidenza d'analisi e di sensibilità, si muove anche Fabio Dei per quanto riguarda gli antropologi: al termine di un denso saggio, egli rileva che «partecipare alle pratiche di costruzione della memoria pubblica e del patrimonio culturale, restando consapevoli dei complessi meccanismi che li costituiscono retoricamente e politicamente nel presente, è il difficile compito che accomuna oggi, a me pare, storici e antropologi».
Traverso conclude il suo saggio ricordando che «l'intrecciarsi della storia, della memoria e della giustizia è al centro della vita collettiva», e che «al punto di intersezione tra storia e memoria, c'è la politica». Ma questa osservazione, che condivido, complica ulteriormente il quadro, perché la politica è una grande manipolatrice della memoria, la utilizza per raggiungere i propri fini, definisce i criteri di selezione tra le varie memorie che si confrontano in uno spazio ed in un tempo definito, stabilisce, a volte anche con leggi, l'obbligo a ricordare, incoraggia una memoria del passato che rafforzi le identità necessarie a sostenere i progetti del presente.
Come ricorda Emanuela Fronza nel suo saggio su Diritto e memoria. Un dialogo difficile, «tra le modalità di intervento giuridico che generano un'intersezione con la memoria, in particolare dei fatti che hanno caratterizzato la seconda guerra mondiale, possono individuarsi due tipologie principali: da un lato, l'adozione di legislazioni sul piano nazionale che istituiscono giornate per invitare le popolazioni a ricordare; dall'altro, delle normative adottate sul piano sopranazionale e nazionale, che puniscono la negazione, la minimizzazione o la giustificazione della Shoah». Sulla seconda operazioni l'autrice solleva giustamente seri dubbi, in quanto con essa si promuove «a ufficiale una e un'unica di quelle infinite interpretazioni» sempre possibili sui fatti storici.
Costruzioni identitarie
Ma anche la scelta di un invito dall'alto alla memoria, a mio avviso, non è esente da rischi: se nessuno contesta, almeno apertamente, la scelta della Shoah come elemento da commemorare il 27 gennaio (e si tratterebbe comunque di capire quali specifiche conoscenze e interpretazioni della Shoah inducono le innumerevoli iniziative intraprese da enti pubblici e scuole in occasione di quella scadenza), una volta intrapresa la strada di stabilire per legge cosa è opportuno ricordare si aprono comunque delicati problemi, ad esempio quando si decide di estendere quell'invito ad avvenimenti più controversi o legati a specifiche situazioni di storia nazionale (si pensi ad esempio alla legge italiana 30 marzo 2004, n. 92, che istituisce un «"giorno del ricordo" in memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale»). In ogni caso i rischi di manipolazione istituzionale della storia - e di ritualizzazione e svuotamento di significato della memoria - sono elevatissimi, e dovrebbero spingere a giudicare con grande prudenza l'istituzione di giornate della memoria, quale che sia il contenuto del ricordo che si vuole imporre per legge.
La costruzione identitaria è del resto sempre un'operazione complessa e necessariamente manipolatoria: lo dimostrano i saggi sull'Europa e sull'utilizzazione del discorso storico nel definire lo spazio europeo di Luca Scuccimarra, Stefano Petrungaro e Patrick Hyder Patterson o, su un altro versante, quello di Raya Cohen sul discorso pubblico israeliano, nel quale si sottolinea la cancellazione del passato europeo dalla storia ebraica insegnata in Israele, a tutto vantaggio del discorso sionistico e dell'esperienza della Shoah, lo evidenzia infine l'intervento fortemente polemico di Hans-Ulrich Wehler contro l'adesione della Turchia all'Europa: tra le varie argomentazioni che l'insigne storico tedesco porta a favore della sua tesi, quelle di carattere economico, sociale, politico si mescolano ad una forte valutazione del differente passato storico, per cui «per circa 450 anni il musulmano Impero ottomano ha quasi ininterrottamente condotto guerre contro l'Europa cristiana portando addirittura il suo esercito alle porte di Vienna»: un esempio di come la memoria di un passato remoto possa orientare gli individui anche davanti a scelte strategiche relative all'oggi.
|