Laocoonte è di Picasso? Salvatore Settis La Repubblica, 05/04/2005
Vale la pena di fare un solo commento alla tesi suicida secondo cui il Laocoonte dei Musei Vaticani sarebbe, in realtà, un falso di Michelangelo. Lynn Catterson, la studiosa americana che ha annunciato con clamore la «scoperta» sulla Stampa del 2 aprile (peccato che non fosse il giorno prima), ha in preparazione un libro sul tema, ma ne ha già anticipato gli argomenti sul giornale torinese. Argomenti di tale inconsistenza e fragilità da non meritare risposte puntuali, che del resto verranno dopo il volume che la Catterson minaccia di pubblicare presto. L'episodio si presta tuttavia a una considerazione di carattere più generale. Non è la prima volta che studiosi (anche di grande valore) affermano che una famosa opera d'arte classica è in realtà un falso. Basti pensare a due casi recenti: il più famoso è certo quello di Federico Zeri, grandissimo conoscitore non solo di pittura (tanto è vero che comprese per primo che il kouros acquistato dal Getty Museum era un falso), il quale si convinse a un certo punto che falso fosse anche il Trono Ludovisi, opera del V secolo a. C. che è fra le gemme del Museo Nazionale Romano nella sede di Palazzo Altemps. Nota solo agli specialisti è invece la proposta di Alessandro Parronchi, secondo cui l'Arrotino o degliUffizi (copia romana da un originale ellenistico che rappresentava lo scuoiamento del satiro Marsia per volontà di Apollo) sarebbe stato scolpito da Michelangelo. Michelangelo è infatti the usual suspect per ogni ipotesi di falsificazione rinascimentale, dato che tutti conoscono la celebre storia (raccontata per primo da Paolo Giovio) del Cupido dormiente, che Michelangelo ventenne scolpì a Firenze e che fu venduto a Roma come antico. Anche il suo Bacco (oggi al Bargello) fu qualche volta preso per antico; ma il disegno di Marten van Heemskerck (circa 1535) che lo mostra in mezzo a sculture antiche nella casa del banchiere Jacopo Galli testimonia non il «falso», bensì la sfida che il giovane Michelangelo indirizzava all'arte dell'antica Roma, ma anche allo sguardo dei conoscitori, creando opere moderne che con quelle antiche potessero vantaggiosamente gareggiare. Sia la proposta di Parronchi che quella di Zeri sono cadute nell'oblio dopo pochi anni, ed è giusto che sia così. Ma queste ed altre avventure inducono a una riflessione. La storia dell'arte classica, greca e romana, è andata incontro negli ultimi decenni a un processo di erosione e di marginalizzazione, del quale si possono indicare sinteticamente tre cause. La prima è la crescente specializzazione della disciplina: mentre gli archeologi ottocenteschi (le prime cattedre furono in Germania) intendevano l'archeologia classica primariamente come storia dell'arte antica, si è via via sviluppato l'interesse per l'archeologia di scavo e per lo studio della cultura materiale degli Antichi, aspetti questi che oggi hanno certo più cultori fra gli archeologi di quanti non ne abbia la storia dell'arte greca e romana. La seconda causa è il fatto che, anche fra coloro che praticano ancora la storia dell'arte antica, è fin troppo diffusa (specialmente negli Stati Uniti) una tendenza a teorizzare che finisce spesso con l'ignorare le stesse opere d'arte di cui si parla, e che con disprezzo non celato definisce object oriented, e cioè indirizzato precisamente alle opere d'arte (sarà una colpa?), chiunque su esse volga uno sguardo ravvicinato, elabori una minuta analisi fattuale e stilistica. La terza causa di questa situazione culturale è nel fatto che gli storici dell'arte antica e quelli dell'arte europea post-antica fanno in genere pochissimi sforzi per frequentare le competenze e le bibliografie dell'"altro" campo. Accade così che ottimi studiosi del Cinquecento cadano in errori madornali quando citano opere greche e romane; o che eccellenti archeologi confondano in buona fede Raffaello con Correggio. Peccato, perché quella dell'arte europea è in realtà un'unica, grande storia che comincia (almeno) dai Greci e arriva dritto, con continuità e discontinuità, fino al presente. Peccato, anche perché la storia dell'arte come disciplina nacque proprio nel1' antichità greca (III secolo a. C), si trasmise attraverso testi di età romana (specialmente Plinio il Vecchio) a Ghiberti, Vasari e mille altri, e rinacque in armi con Winckelmann precisamente come storia dell'arte classica, ispirando poi tutti gli sviluppi successivi, anche la storia dell'arte del Medioevo e del Rinascimento. Ma intanto, mentre la storia dell'arte antica, grazie a nuovi studi e scoperte (come i Bronzi di Riace o il Satiro di Mazara) si rinnova di continuo, gli storici dell'arte post-antica non stanno al passo, e conservano al più un'immagine sfocata e convenzionale, ampiamente «datata», degli sviluppi stilistici di Greci e Romani; e ad essa, faute de mieux, fanno riferimento. Secondo un profetico aforisma di Goethe, «le discipline si autodistruggono in due modi: o per l'ampiezza in cui pretendono di estendersi, o per le profondità in cui s'immergono». E' quello che sta accadendo in questo campo: troppo immersi nella propria disciplina (spesso la competenza di un singolo si limita a uno, due secoli al massimo, talvolta a pochi artisti), gli studiosi talvolta vogliono entrare in campi diversi dal proprio (ed è un bene), ma sentono sempre meno il bisogno di attrezzarsi adeguatamente a un rigoroso controllo dei dati. La storia dell'arte classica è così diventata per alcuni storici dell'arte post-classica una sorta di terra incognita, in cui ci si può avventurare senza remore e senza controlli; né mancano gli archeologi che si inoltrano sul terreno, poniamo, rinascimentale o barocco, navigando ignari fra mille insidie e approssimazioni. Ma è in particolare l'arte greca e romana che sembra offrirsi come un terreno di caccia per facili«scoperte» che ignorano bellamente l'oggetto stesso degli studi: per esempio il Laocoonte con le sue ferree coordinate stilistiche, con il suo posto ben chiaro nella storia dell'arte del tardo ellenismo. Nel 1957, fu scoperto nella grotta "di Tiberio" a Sperlonga uno straordinario complesso di sculture, fra cui il gruppo (frammentario) di Ulisse e i compagni assaliti da Scilla. Sulla nave, un'epigrafe in greco dà la "firma" degli scultori: Atanodoro, Agesandro e Polidoro, gli stessi a cui (lo dice Plinio) dobbiamo il Laocoonte; col quale, infatti, è del tutto evidente l'identità di mano e di stile. Se il Laocoonte è di Michelangelo come vuole Lynn Catterson, una conclusione s'impone: a lui e non ad altri si devono anche le sculture di Sperlonga, e l'iscrizione con la "firma" (forse anche il testo di Plinio?). Quel burlone di Michelangelo avrà dunque scolpito questi altri «falsi», facendoli poi a pezzi per meglio simulare la scoperta archeologica, e seppellendoli a Sperlonga al fine di giocare un pesce d'aprile ai posteri. S'inaugura così un nuovo trend nella storia dell'arte. Chi è l'autore del Partenone? Palladio, perché no? Chi ha dipinto la Cappella degli Scrovegni? Caravaggio, I suppose. E la Cappella Sistina? Michelangelo certo no, era troppo impegnato nei suoi traffici di falsario. Non sarà stato Picasso?
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