Direttore dittatore Sandro Cappelletto La Stampa, 5/4/2005
La professione del dirigere, nata due secoli fa come conseguenza dell'ampliamento numerico delle orchestre e dunque della necessità di un musicista che le governasse, ha presto oltrepassato i valori tecnici specifici per assumere altri significati simbolici. Una netta distanza divide il senso complessivo - i poteri, le capacità, i limiti - del direttore d'orchestra dalla percezione e dall'immaginazione della sua funzione da parte del pubblico e dei mezzi d'informazione meno consapevoli. Oggi, il mestiere è regolato da norme sindacali molto dettagliate e da codici relazionali altrettanto significativi che non consentono iniziative non condivise, passi falsi nelle relazioni interpersonali, e richiedono invece, un esercizio democratico, continuo e paziente, del proprio sapere e della propria «mission». Nessuno può soltanto immaginare di rivolgersi alla massa degli orchestrali con gli epiteti insultanti che, urlando, usava Arturo Toscanini: non durerebbe mezz’ora e la sua carriera sarebbe subito stroncata. Diversi studi indagano le dinamiche che si creano nel rapporto tra orchestra e direttore come esempio di un gruppo di lavoro teso a raggiungere un obiettivo comune: «Dirigere significa pervenire ad un risultato di eccellenza identificabile nella collaborazione tra un soggetto che inseguendo un sapere sempre più ampio e generalistico rinuncia alla dimensione fisica del fare, rispetto ad altri soggetti finalizzati al perfezionamento di un "saper fare" sempre più specialistico ed individualizzato», scrivono Francesco Attardi e Giuseppe Pasero in Leadership trasparente - Direzione d'orchestra e management aziendale (Franco Angeli). L'attuale attrito, dopo diciannove anni di convivenza pacifica e reciprocamente vantaggiosa, tra l'Orchestra della Scala e Riccardo Muti dimostra che anche questo tipo di matrimoni subisce oscillazioni affettive violente, non di rado definitive. Il maestro Muti, anche grazie a una politica dell'immagine piuttosto volitiva (la persona in realtà è più sensibile, complessa e dunque interessante) e ad un' agiografia giornalistica che ha avuto pochi precedenti, viene proposto oggi come prototipo del direttore-sovrano. Così, alcuni dei suoi sudditi si dichiarano sgomenti al solo pensiero di un'abdicazione: reazione che non rientra in una dialettica di professionismo musicale, ma è ascrivibile alle derive della psicologia di massa e - in questo caso - di una città come Milano inquieta del proprio futuro. Uno spiccato super-io è senz' altro condizione necessaria per intraprendere questo mestiere, ma non sufficiente. «Non essere imperatore o re, ma starsene là come un direttore d'orchestra»: la fantasia del giovane Richard Wagner era destinata a tramutarsi, da adulto, in un incubo ricorrente, raccontato nei dettagli dalla moglie Cosima: non riuscire a dirigere la Nona Sinfonia di Beethoven, trovare sempre un ostacolo tra sé e il podio, invalicabile. Da compositore, sentiva il peso terribile di dover restituire la bellezza di quel capolavoro: avvertiva, perfino lui, la propria inadeguatezza. L'immenso talento di Herbert von Karajan veniva supportato da encomi, scritti e visivi, che oltrepassavano la categoria della leadership, del comandante in capo, per sfiorare i tenitori della mistica: nell'ultimo decennio di vita, il maestro veniva proposto come asceta sofferente: quasi un malato Pontefice al servizio della divinità della musica. Un altro, a lui coetaneo, titano del podio come Leonard Bernstein ha sempre evitato queste associazioni: sudato, ebbro, scamiciato, sorridente, dionisiaco, alla mano. Un democratico del Massachusetts contrapposto a un reazionario, con sospette simpatie per Hitler. Carlo Maria Giulini ripete sempre di essere un «servo, devoto al genio del compositore»: mai, negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni del maestro abbiano ritrovato la smentita di questa affermazione di principio. Giulini rientra nella categoria, in verità estesa, di direttori poco spendibili mediaticamente, nonostante i meriti musicali. Come Gary Bertini, scomparso il mese scorso al termine di una carriera esemplare. Un rischio che saprà senz'altro evitare Antonio Pappano, responsabile della lirica al Covent Garden di Londra, nuovo direttore principale dell'orchestra romana di Santa Cecilia, del tutto disattento rispetto alle esigenze di look: il frack con le code troppo lunghe, una statura non eccezionale, qualche chilo di troppo, una politica della comunicazione tutt'altro che «tirannica», non gli hanno impedito di riscuotere l'adesione convinta dell'orchestra e l'entusiasmo del pubblico al termine del suo recente «concerto di investitura». Subito dato in pasto al consumo mediatico è invece il giovane, smilzo, agile, informale - jeans e zazzera bionda spettinata - direttore inglese Daniel Harding: prorompente musicista nato - l'attacco del Don Giovanni ad Aix en Provence è stato folgorante e sbarazzino - chiamato ora a raffreddare le temperature espressive, scavando di più nelle partiture che affronta. «Non esistono cattive orchestre, esistono soltanto cattivi direttori» : la verità di Hans Swarowsky, il musicista austriaco maestro di tanti maestri, va sempre rammentata. Esistono anche buoni direttori che si normalizzano di fronte a musiche che non «sentono», non comprendono: Muti ha deluso in Wagner, Abbado si tiene lontano da Puccini e certo, neppure lui, è un wagneriano. «La tecnica si impara in cinque minuti, il resto... è il resto», diceva Giuseppe Sinopoli, che si era formato a Vienna proprio con Swarowsky (e sapeva di avere poco da condividere con Rossini, Bellini, Donizetti, e con Stravinskij). Il resto è il carisma, un bene immateriale, non programmabile, però pesantissimo. E Wilhaelm Furtwaengler che si affaccia alla porta d'ingresso della sala prove dei Berliner Philharmoniker e, con il suo solo apparire, cambia il suono dell'orchestra: una lettura d'allenamento diventa un'interpretazione grazie alla sua sola presenza. Il resto è il fascino creativo di questa professione ed è anche, e soprattutto, l'orchestra: «L'orchestra ha nei riguardi del direttore un atteggiamento ambivalente. Mentre essa, pronta all’esecuzione travolgente, pretende che lui la tratti con durezza, lui è al tempo stesso sospetto in quanto parassita che non deve mettersi a tirare l'arco o a soffiare in uno strumento e che si fa bello a spese di quelli che suonano», scriveva mezzo secolo fa Theodor Adorno nel capitolo dedicato alla direzione d'orchestra del primo, e insuperato, saggio di sociologia della musica. La storia della direzione e delle grandi orchestre va scritta, e oggi questo è un parametro discriminante, anche come business history: di un maestro si «pesano» la spendibilità internazionale, i rapporti con le principali agenzie, la redditività delle tournée che, puntando sul suo nome, l'orchestra riuscirà a realizzare. Raccontano gli agenti musicali che quando fanno il giro dei festival per vendere i concerti - la musica è naturalmente anche merce - gli assessori italiani ripetono ossessivamente tre nomi: «Mi devi portare o Muti, Abbado o Mehta se ci riesci, allora i soldi te li trovo!». Anche 150 mila euro a concerto, senza batter ciglio, e senza troppo preoccuparsi di bilanci zoppicanti. Il prezzo dei biglietti sale, la sala si riempie di pubblico influente, il mediatore politico della serata incassa un ritorno di immagine, anche se il suo amore per la musica appare spesso episodico. Uno degli argomenti più discussi negli attuali incupiti giorni scaligeri è quale eventuale nuovo direttore potrà portare in dote all'orchestra milanese quella diffusa visibilità e quella presenza di sponsor che, grazie agli accordi con Mediaset e Telecom, sono state in questi anni garantite. Campioni infallibili di questi calcoli sono i Berliner Philharmoniker: la scelta di Simon Rattle come successore di Claudio Abbado e loro nuovo chef, premia un maestro appena cinquantenne, curioso di avventure musicali extraclassiche, poliglotta, post-moderno, molto disinvolto nei confronti del repertorio tradizionale, sensibile al valore della diffusione sociale della musica, attento ai segnali della politica, vicino alla lobby anglosassone dei commessi viaggiatori dei concerti, potente quanto quella russa. Non sapremmo dire in quali titoli Rattle eccella, però è l'uomo giusto al momento giusto, in una città e per un pubblico che ama la musica, le affida un ruolo profondo nella definizione della propria identità, e di tiranni ne ha avuti abbastanza.
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