Quanta barbarie anche culturale Paolo Matthiae Il Messaggero 2/4/2005
Le opere del patrimonio culturale esistenti in ogni luogo del pianeta, appartenenti a qualunque periodo, sono patrimonio comune dell’umanità: è questo un dogma laico fondamentale e imprescindibile che l’Unesco ha propugnato ed affermato con vigore e che è ormai divenuto acquisizione universale, un principio accettato da tutti gli Stati aderenti all’Onu. Si dovrebbe aggiungere, anche se sembra un paradosso, che tutte le opere sono uguali, così come tutti gli uomini, sul piano della dignità e dei diritti, sono uguali tra loro. Questa seconda considerazione, ancora non compiutamente accettata, è non meno necessaria della prima, in quanto con essa si afferma l’intangibilità delle opere culturali, qualunque sia il contesto politico-culturale in cui esse, in determinati momenti dello sviluppo della storia, si trovino. Comunque, è fortunatamente crescente la consapevolezza, sia nel pubblico sia nei governi, che le opere del patrimonio culturale debbano essere rispettate, protette, restaurate e rese fruibili. Se tutto ciò è indubbiamente vero e è motivo di qualche soddisfazione, la terribile crisi dell’Iraq ha mostrato e sta mostrando mese per mese e giorno per giorno tragicamente che, nelle guerre e nelle occupazioni, ancora ai nostri giorni le convenzioni e le dichiarazioni universali sancite dall’Unesco non vengono rispettate, non solo da guerriglieri e combattenti irregolari, ma neppure dalle truppe degli eserciti regolari, anche quando appartengono ad una delle grandi democrazie dell’Occidente. Per non ricordare che alcuni dei casi più drammatici, dopo l’inaudito saccheggio del Museo di Bagdad, la dislocazione di comandi delle truppe d’occupazione anglo-americane sul luogo dell’antica Kish da parte dei britannici e addirittura a Babilonia da parte degli americani è sembrata incredibilmente imprudente. Come se, nel 1945, un comando alleato si fosse allocato sul Palatino, da un lato, e nell’area archeologica di Ostia dall’altro. Le angosciate proteste di archeologi statunitensi e britannici sono rimaste inascoltate. Oggi, questo impiego, per usare un eufemismo, disinvolto, ma si dovrebbe dire piuttosto cinico e oltraggioso, dei monumenti più celebri dell’Iraq per fini strategici, anche piuttosto banali, sta creando danni che divengono sempre più irreparabili. All’origine dell’ultimo e gravissimo di questi danneggiamenti sarebbe stato l’uso, da parte delle truppe americane per appostarvi tiratori scelti, addirittura dell’altissimo e famosissimo minareto elicoidale di Samarra, costruito nel IX secolo d.C. dal califfo al-Mutawakkil e oggi unico resto spettacolare, tranne lunghissimi tratti della cinta muraria, di una delle più rilevanti moschee abbassidi dell’Iraq. A seguito di ciò, la guerriglia irachena avrebbe colpito i settori più alti del celebre minareto, rovinando in maniera irreparabile la struttura di un monumento che, a torto o a ragione, è stato sempre considerato non solo un simbolo dell’Iraq, ma anche della continuità culturale tra l’antica Mesopotamia delle ziqqurat e l’Iraq medioevale delle moschee. Oltre le infinite morti mietute senza pietà nella infelicissima popolazione dell’Iraq, quanti altri danni dovrà subire il patrimonio culturale di quella regione del pianeta dove sono sorte le prime città e i primi Stati della storia dell’umanità?
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