Governo del territorio e sviluppo Marco Dugato 30 mar 05 , governareper
Nella legislazione regionale degli ultimi venti anni la pianificazione territoriale generale è profondamente cambiata, sia negli strumenti che per l’ampliarsi delle tematiche coinvolte. Ma l’impulso e la programmazione dello sviluppo economico del territorio sono stati sviluppati separatamente dalla pianificazione territoriale in senso stretto. Occorre il ritorno ad una pianificazione complessiva. Accade spesso che le riforme legislative diano luogo ad accesi dibattiti e a lunghe disquisizioni in merito al significato delle espressioni letterali e al valore delle differenti formulazioni delle norme. Nulla che debba stupire, dal momento che il contenuto precettivo del comando (la norma) è in primo luogo da estrarre dalla sua lettera (la disposizione) e che fisiologicamente accade che quest’ultima si presti a più di una interpretazione.
Il testo attuale dell’art. 117 della Costituzione, che disegna l’assetto delle competenze legislative dello Stato e delle Regioni, non fa più riferimento alla «urbanistica», bensì al «governo del territorio». Tra le letture esegetiche fortemente contrastanti, non sono ovviamente mancate quelle di chi ha inteso sminuire la qualità innovatrice della nuova disposizione, riducendola ad un mero restyling linguistico e negandone ogni specificità rispetto alla vecchia formulazione. L’operazione, comprensibile come lo è ogni resistenza ai cambiamenti, non è però corretta. Non serve essere un giurista od un esperto pianificatore per comprendere che le due espressioni non sono sovrapponibili, ma stanno tra loro in un rapporto concentrico, così che governare il territorio significa anche occuparsi di urbanistica.
Si badi, non si tratta di una fine polemica dogmatica, bensì di comprendere che cosa lo Stato e le regioni possano e debbano fare e che cosa, quanto e come debbano regolare. L’importanza della questione è suggerita dalle recenti considerazioni svolte da Flavio Delbono in un’intervista ad un quotidiano bolognese. L’economista ed assessore regionale ha rilevato come lo sviluppo economico e sociale sia fortemente legato alla necessità di una programmazione volta alla semplificazione dei processi, all’impulso al decentramento e alla diminuzione della gestione. Non mi pare si possa dubitare che l’opzione, del tutto condivisibile, attenga al governo del territorio nel suo complesso.
Nella legislazione regionale degli ultimi venti anni, la pianificazione territoriale generale è profondamente cambiata. Non solo ne sono cambiati gli strumenti, in sintonia con il cambiamento del contesto sociale ed amministrativo, che hanno dato maggiore significato e rilievo alla partecipazione ed al concorso del privato nell’attuazione delle scelte pubbliche. Ne è cambiato anche il raggio rispetto al decennio precedente. Si è via via arricchita di tematiche di grande rilievo, quali quelle ambientali o quelle del riequilibrio sociale (perequazione, contratti di quartiere), ma ha sostanzialmente rinunciato al ruolo di impulso e programmazione dello sviluppo economico del territorio. Con ciò, non si vuol dire che la legislazione regionale è stata insensibile al tema, ma che ha deciso di occuparsene separatamente dalla pianificazione territoriale in senso stretto. La scelta non mi pare felice. Gli atti di programmazione o di gestione dello sviluppo, se considerati nella loro dimensione più vasta, si sono spesso rivelati forme finanziarie incentivanti o dichiarazioni di intenti e programmi di sviluppo destinati ad arenarsi dinnanzi al mancato coordinamento con la disciplina urbanistica.
In uno studio serio e recente, dedicato al grado di appetibilità dell’Italia nei confronti degli investimenti stranieri, accanto ai risultati, davvero avvilenti, in merito all’appeal del paese, l’irrazionale complicatezza amministrativa è stata indicata come una delle cause maggiori dell’insuccesso. Se si considera che la negatività di quegli stessi ostacoli è evidentemente percepita nella stessa misura dagli investitori nazionali, appare chiaro che il nodo della razionalizzazione amministrativa è il primo da sciogliere se si vuole dare concretezza ad un programma di sviluppo in un momento di crisi accertata.
Ecco perché rimeditare la pianificazione è una sfida alla quale non ci si può sottrarre, poiché è facile comprendere quale sia il rilievo della pianificazione e della progettazione del territorio nel complesso dell’azione amministrativa che s’intreccia con lo sviluppo economico. Ed allora, prima ancora della semplificazione, sono la razionalizzazione e l’integrazione delle funzioni, dei compiti e delle azioni a divenire primaria esigenza. La razionalizzazione e l’integrazione non solo e non tanto delle funzioni pianificatorie, ma di tutte le funzioni riconducibili al governo del territorio.
L’operazione non può che passare per il ritorno ad una pianificazione complessiva; ad una pianificazione che governi l’uso del territorio anche in un’ottica di sviluppo economico.
Non si tratta di riallocare nuovamente le funzioni programmatorie e pianificatorie. Le regioni hanno già ogni competenza necessaria. Non si tratta neppure di semplificare nel senso della eliminazione di funzioni ed interventi pubblici (operazione, questa, forse necessaria ma non di primaria importanza e per certi versi pericolosa). Si tratta invece di creare un luogo integrato di esercizio delle funzioni programmatorie, unitario e dotato delle competenze e dell’organizzazione necessarie per far fronte al compito.
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