La cultura italiana? E' una lumaca! Manuel Massimo .com 19-MAR-2005
La cultura è una risorsa fondali mentale per la collettività e deve rivendicare il suo "indispensabile" ruolo: troppo spesso, nei bilanci, è proprio l'industria della cultura la prima ad essere "sacrificata" a favore di altri settori che appaiono più importanti, ma in realtà non lo sono». Con queste parole Vittorio Ripa di Meana, presidente dell'Associazione per l'Economia della Cultura (AEC), ha aperto rincontro-dibattito di giovedì scorso a Roma, occasione in cui è stato presentato il volume "Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000" (II Mulino, 2004), collettaneo che esamina in modo sistematico le dinamiche relative al settore culturale, con particolare attenzione alla domanda ed all'offerta di cultura in Italia. Questo poderoso lavoro d'analisi fa seguito al precedente volume che riguardava il decennio 1980-1990: quali sono le principali differenze riscontrate, tra gli anni '80 e gli anni '90, nei diversi settori culturali? Come è cambiata l'industria culturale? Quello che emerge è un quadro contraddittorio, in cui convivono la vitalità di alcuni settori e la sostanziale staticità di altri, soprattutto per ciò che concerne le fonti di finanziamento (annosa questione, a tutt'oggi attualissima). I dati in pillole Il settore culturale è stato suddiviso in quattro comparti (beni culturali, spettacolo dal vivo, audiovisivi, editoria) che sono stati analizzati nell'arco di dieci anni: un'ottica di lungo periodo che ha consentito di delineare dei trend attendibili. 1) Beni culturali in forte sviluppo: non solo conservazione ma anche valorizzazione. E' il settore che è cresciuto "di più e meglio", anche se permangono delle criticità: prima fra tutte l'opposizione "centralismo versus devoluzione" (con un decentramento "sulla carta" che però risulta ancora largamente inattuato); gli introiti, seppur triplicati, dipendono sostanzialmente dall'aumento dei prezzi, non dei fruitori di cultura; la deprivazione culturale dell'Italia meridionale è una (triste) realtà. 2) Spettacolo dal vivo: crescita rallentata, sostenuta principalmente dagli enti locali. Settore statico (è cresciuto solo del 20% a fronte di un 33% del settore culturale nel suo complesso) a causa di un notevole ridimensionamento dei finanziamenti statali (-29% nel decennio considerato), "vivacchia" grazie al sostegno economico dei comuni e al mecenatismo dei privati (in particolare fondazioni bancarie). 3) Audiovisivi: una crescita senza sviluppo di imprese nazionali a causa del duopolio televisivo Rai-Mediaset. Dal 1990 al 2000 il settore nel suo complesso è cresciuto del 42,8%, gli investimenti pubblicitari dell'88,7% e la spesa delle famiglie del 36%. Il duopolio televisivo Rai-Mediaset, però, continua a raccogliere il 90% delle risorse e del pubblico. Crisi della discografia nazionale: la multinazionali straniere "dettano legge" e nel 2000 controllano il 90% del mercato (era il 63% nel 1990). 4) Editoria: lettori in calo e imprese più deboli. Panorama fondamentalmente stagnante: gli indici di lettura restano scarsi, gli introiti da vendita subiscono una contrazione del 21% e la spesa delle famiglie per "quotidiani e periodici" perde 10 punti percentuali in 10 anni (passando dal 37,2 del 1990 al 27,1 del 2000). Settore ad "elevata vulnerabilità strutturale". Gli interventi in sintesi I curatori del volume Carla Bodo e Celestino Spada hanno illustrato i punti salienti del lavoro. La prima ha suggerito una devoluzione "con giudizio": «Decentrare "senza regole" rischia di diventare un gioco al massacro per le regioni più deboli: la govemance della cultura va attuata per gradi». Il secondo, dal canto suo, ha sottolineato la presenza sempre più massiccia di imprese estere: «Le imprese italiane, specie se non legate al duopolio televisivo, non riescono ad inscriversi nel sistema dell'industria culturale e non ne colgono le principali opportunità». Enzo Cheli, fresco ex presidente dell'Authority per le Comunicazioni, ha individuato i tre effetti della "rivoluzione digitale": «L'arricchimento del potenziale comunicativo, l'interattività e la convergenza. Ma la tecnologia, da sola, non basta a garantire il pluralismo: ci vuole un'europeizzazione delle regole». Il "diritto d'accesso" si configura come il perno di questa trasformazione in atto. Giuliano Urbani, ministro per i Beni e le Attività Culturali, ha riassunto in un'immagine "zoomorfa" il settore della cultura: «Una lumaca, che però si è mossa nella direzione giusta. Per quanto riguarda il recente passato (il quinquennio 2000-2005, ndr) posso dire che questa lumaca è andata più svelta, ma sempre tale resta». Cosa bisogna fare, dunque, per dare una spinta all'industria culturale? «Stiamo lavorando a un libro bianco che s'intitola "Investire nella cultura" per far capire (in primis al governo, ndr) che i fondi destinati alla cultura rappresentano un investimento per il futuro: vogliamo raddoppiare i 2 miliardi di euro annui destinati alle attività culturali». Belle parole: a quando i fatti?
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