«In Italia il cinema non si fa più» Francesca Scorcucchi 06/03/2005, Il Mattino
Los Angeles. Dante Ferretti è già al lavoro. Dopo aver ottenuto, con sua moglie Francesca Lo Schiavo, l'Oscar per la migliore scenografia di «The Aviator», di Scorsese, non ha avuto molto tempo per festeggiare. Il giorno dopo la coppia è ripartita per Sofia, in Bulgaria, dove si sta girando «The Black Dahlia» di Brian De Palma e dove Ferretti e signora sono chiamati a un compito ardito: ricostruire Los Angeles. Ferretti, dove ha conservato gli Oscar? «Le ho affidate ai miei figli, nella nostra casa di Roma». Ma lei e sua moglie ormai vivete a Miami. Perché Roma? «Perché in fondo la nostra vera casa è a Roma, anche se ormai viviamo dappertutto e abbiamo una casa a Miami dove stiamo la maggior parte del tempo. Ma i miei ricordi più belli sono a Roma, è lì che ho le radici. È la casa di Roma quella che riempo di ricordi». Ora ricostruisce la Los Angeles degli anni Quaranta a Sofia: non era più facile farlo proprio a Los Angeles? «Se un giorno dovrò ricostruire Sofia mi manderanno a Los Angeles, è il mio destino. Sarebbe stato molto più semplice girare a Los Angeles, ma è questione di soldi, in Bulgaria costa tutto meno. È una decisione che prende il produttore e nessuno può dire niente». Per gli esterni, come fa a trasformare la Los Angeles di oggi nella città che era sessant'anni fa? «Abbiamo scelto già tutte le location, posti veri. Ma andranno riadattati, vanno cambiate delle scritte e delle vetrine che una volta non c'erano. È questo il mio mestiere. Quando si vedono i film al cinema sembra tutto naturale, invece, dietro le cose che sembrano naturali c'è un grande lavoro». Da che parte comincia quando le viene affidato un nuovo progetto? «Dal copione. La prima cosa che bisogna capire è di che storia si tratta. Attraverso le ambientazioni e la scenografia devo dare vita alla storia. È importante quindi leggere bene la sceneggiatura e pensarci un po’ su. Poi comincio a fare ricerche su quel periodo e sul tipo di ambiente che devo realizzare». È quella la parte più difficile del suo lavoro? «No, quella della ricerca è una fase piuttosto facile. La parte difficile, ma anche più bella, è disegnare. Disegno le scene, faccio i bozzetti e i modellini tridimensionali da mostrare al regista». Quali scene di «The Aviator» pensa le siano riuscite particolarmente bene? «Quella del Cocunuts Grove e quella dell'ufficio della Pan Am. In quel film abbiamo ricostruito tutto, persino il Teatro Cinese». Come mai non avete utilizzato quello vero, che è uno dei simboli di Hollywood? «Perché è cambiato, o meglio, è cambiato quello che gli sta attorno. Una volta di fronte al Chinese Theatre c'erano le palme. Avremmo dovuto bloccare il traffico per sei giorni e sarebbe costato troppo. Quindi l'abbiamo ricostruito in Canada, a Montreal». Il suo rapporto con Scorsese? «L'ho conosciuto tanto tempo fa, abbiamo già fatto sei film insieme e posso dire che meriterebbe l'Oscar, ma non voglio polemizzare». Vi siete conosciuti in Italia, vero? «Sul set de “La città delle donne”. Lui era venuto a far visita a Fellini e lui ci ha presentati. Poi Scorsese mi chiamò per fare “L'ultima tentazione di Cristo”, ma io ero occupato, mi chiamò una seconda volta e idem, alla terza richiesta corsi da lui: per “L’età dell'innocenza”». E in Italia non vorrebbe tornare a lavorare? «Mi piacerebbe eccome, d'altronde sono italiano. Ma il cinema in Italia, chissà per quale motivo, non si fa più, o comunque sempre di meno. E quindi eccomi in Bulgaria».
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