CHE fine ha fatto Il grido di Edward Munch? Danilo Maestosi Domenica 6 Marzo 2005, Il messaggero
CHE fine ha fatto Il grido di Edward Munch, quadro profetico che decreta l’addio alle utopie romantiche dell’Ottocento e annuncia gli orrori del Novecento? E perché i ladri continuano a farne bersaglio: la prima versione portata via e recuperata anni fa, la seconda trafugata l’anno scorso e mai più ritrovata. Inutile negarlo. E’ un’assenza che pesa come un macigno sulla mostra, in scena dal 9 marzo al 19 giugno, con cui il Vittoriano inaugura la stagione e prosegue il suo fortunato ciclo di rivisitazioni dei grandi maestri dell’arte moderna. E apparentemente sbilancia il confronto con altre rassegne che l’Italia ha dedicato ad Edward Munch (1863-1944): una recente tenutasi a Verona inizio Duemila, e un’altra, ancora più ricca, che venti anni fa fece tappa a Milano e a Roma. Dovremo rassegnarci a rivivere l’emozione del capolavoro scomparso attraverso una litografia. Ma chissà che proprio il vuoto di questa gettonatissima icona, compensato in mostra da altre tele mai viste, pescate da collezionisti privati ad arricchire i massicci e generosi prestiti dei musei di Oslo, non consenta di riavvicinarsi con occhio più attento e meno scontato alle opere di questo geniale pittore norvegese? Comprendere più a fondo la ricchezza e l’attualità del suo lavoro, che fonde nel suo immaginario nordico e indirizza verso orizzonti mai battuti prima, fino quasi a sfiorare quelli estremi dell’arte astratta, le ricerche degli impressionisti e dei postimpressionisti, la libertà del colore dei Fauves, il formalismo decorativo dell’Art Noveau, i percorsi intimisti del simbolismo, le tensioni degli espressionisti cui prepara la strada. La controprova di questo mirato ampliamento di angolazioni e visuali critiche, è già nella scelta dei curatori: al norvegese Oivind Storm Bjerke si affianca lo sguardo di un esperto più eclettico e fuori asse come Achille Bonito Oliva. Nel saggio di presentazione, incluso nel catalogo edito da Skira, il teorico della transavanguardia apre stimolanti piste di rilettura del lavoro di Munch: «la sua idea di tempo circolare», «le sue immagini costruite a balzi, fuori dalla retta del progetto», il suo oscillare tra «concentrazione figurativa e cornice astratta», «descrizione e decorazione», «convenzione e invenzione». Ma la conferma è soprattutto affidata alla visione delle opere: i dipinti, una sessantina di oli, sgranati in ordine cronologico lungo il percorso, gli inquietanti colori delle Ragazze del Ponte del 1901 spostate all’inizio come biglietto da visita; una cinquantina di stampe, incisioni, xilografie concentrate in una sala diversa; e infine una terza sala interamente dedicata alla fotografia, con quella illuminante progressione di autoritratti che Munch cominciò a scattare all’inizio del Novecento su impulso del suo amico scrittore August Strimberg, e che fanno da specchio alla sua continua, morbosa introspezione degli abissi dell’anima. Non ci sarà Il grido . Ma c’è Disperazione , il quadro che lo precede e ne riassume l’ispirazione. Lo stesso pontile, le stesse figure nere sullo sfondo, lo stesso panorama di colori increspati, ma in primo piano un giovane cupo, gli occhi abbassati: «ero stanco, malato, il tramonto tingeva il cielo di sangue, mi sembrò di sentire l’immenso grido della natura», racconterà l’autore in un suo scritto. «E’ la sofferenza che si fa sentimento cosmico. La consapevolezza che il Giudizio Universale non è un altrove che verrà ma il mondo stesso in cui viviamo: un quadro che come Guernica e pochi altri diviene emblema profetico, pronto a moltiplicarsi in manifesto», commenta Achille Bonito Oliva. Non ci sarà neppure la Madonna , anch’essa asportata dai ladri nello stesso colpo. Ma a rimpiazzarla ci sarà una versione più tarda, «non finita», prestata da un collezionista americano, che rende ancor meglio l’idea dell’artista, falsata da un titolo aggiunto da altri: ritrarre una donna subito dopo l’orgasmo, in una tregua che riassume il segreto della vita. Già, il senso smarrito e sfuggente della vita. Un’ossessione per Munch, che si addentrò e si perse, fino a finire per un anno in manicomio, nel labirinto angoscioso di questa ricerca, traducendola in vari quadri, che poi raggruppò in un ciclo, come tappe in sequenza di un unico Fregio, esposto a Berlino. Una mostra che fece scandalo, ma contribuì a lanciarlo. Ed è facile capire perché rivedendo i quadri che lo compongono, tutti presenti nella rassegna del Vittoriano. Segni e colori che penetrano sotto la pelle della realtà, rendono visibile l’invisibile. Oltre al Grido e a Madonna, tra gli altri, anche La bambina malata : uno struggente ritratto della sorella stroncata dalla tisi quando il pittore aveva appena 14 anni, una tragedia che lo segnò. Capolavori che rappresentano il cuore pulsante di questa nuova passerella romana, allestita con rigore e impegno da Alessandro Nicosia. Preceduti e affiancati da opere, paesaggi soprattutto, che documentano gli influssi del soggiorno a Parigi, crinale della sua maturazione: l’ammirazione per Seurat, Pissarro, un tributo alle donnine di Degas, la folgorazione per Gauguin e Van Gogh. E seguiti dai quadri dell’estrema maturità, dipinti tutti nell’eremo fuori Oslo di Ekely, su cui grava un mistero mai chiarito. Munch li ammassava all’aperto, lasciandoli dilavare dal gelo, coprire da muffe e escrementi di topi. Una tecnica voluta per trasformare in corpi doloranti anche le tele o solo l’apatico distacco di un artista che ha toccato un fondo dove nulla ha più senso?
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